Un cammino tra Senegal e Guinea Bissau
La Repubblica del Senegal è situata all’estremità occidentale del continente africano e si presenta come un’affascinante terra di confine tra le regioni aride sahariane ed i territori umidi dell’Africa guineana. Le sue frontiere racchiudono un angolo di mondo in cui l’agricoltura e l’allevamento occupano la maggior parte della popolazione attiva, dove i prodotti ittici, gli arachidi, il cotone ed i fosfati la fanno tuttora da padroni alimentando un’economia nazionale fortemente dipendente dai prodotti agricoli di sussistenza. Si tratta di un paese gravemente battuto dalla profonda crisi degli anni ’70 portata dalla siccità che, al giorno d’oggi, ancora urla e si insinua nell’ambiente urbano scavando solchi sempre più profondi tra gli strati medio – bassi e le fasce abbienti della popolazione, contribuendo alla crescita del degrado dei quartieri popolari e periferici con la conseguente marginalizzazione dei loro abitanti.
La Repubblica, segnata nel ‘94 anche dalla svalutazione del Franco CFA , che ha influito su diversi settori dell’economia locale portando alla liberalizzazione del codice del lavoro per abbassarne il costo e migliorare la competitività del settore manifatturiero, risente anche dell’esodo rurale e della svendita dei terreni a causa del pressante fenomeno della globalizzazione.
In un panorama in cui la storica agricoltura familiare è sempre più soppiantata da nuove professioni fittizie (vendita di oggettistica made in China) ed i forti esportatori sottraggono i terreni coltivati alla popolazione, spesso in stato di degrado (suoli compatti ed aridi a causa delle estese monocolture, dei pesticidi e dei fenomeni di slash & burn), l’impotenza generale si consolida, incidendo a livello culturale e generando un senso di forte dipendenza dal mercato globale e dagli aiuti esteri.
In uno scenario così poco promettente,Alessandro Di Donna, giovane ideatore della prima Food Forest milanese, ha percorso una traccia che lo ha portato a conoscere gli interventi di sviluppo e riqualificazione agricola realizzati sui territori che coprono la via che va dal Senegal alla Guinea Bissau.
L’incontro-scontro avuto con realtà attive sul territorio come l’Art Center Portes et Passages (area estesa lungo la strada di Dakar comprendente un laboratorio di 400 mq dedicato ad attività rivolte alle donne ed il futuro “Centro per l’Arte e lo Sviluppo Olistico) o l’Associazione Duniama (un gruppo di collaboratori, visionari, appassionati all’ecologia, europei e non, che, vivendo ad Abenè, piccolo villaggio fatto di stradine sabbiose e percorribile solo tramite moto – taxi, lavorano assieme per costruire giardini – ideifici che producano cibo ed iniziative per lo sviluppo territoriale) gli ha dato la possibilità di confrontarsi sulle tecniche colturali, entrando a pieno nei progetti, comprendendone gli obiettivi e riscontrandone purtroppo anche le problematiche. Grazie al suo viaggio Alessandro ha potuto conoscere le due facce che abitano e vivono i territori dell’Africa occidentale. Se da un lato infatti si è imbattuto nel forte senso di immobilismo e rassegnazione espressi da personaggi come Papa Boure, contadino del villaggio di Mbodiene, proprietario ma non coltivatore del suo terreno ormai in concessione a terzi; dall’altro ha conosciuto il lato interventista e speranzoso del torrido territorio africano, rappresentato da fermi sostenitori del pensiero possibilista come Isis Noor Yalagi, attivista abitante di Abenèche da anni cerca di promuovere la permacultura per combattere la deforestazione, decolonizzare la cultura dalla dipendenza e formare la comunità sull’uso consapevole delle risorse naturali.
Ma se alla luce di una fredda e conclusiva SWOT Analysis, le minacce rischiano di superare di gran lunga le opportunità a causa sicuramente della mancanza dei mezzi, ma anche per colpa dell’assenza di una radicata e diffusa cultura del positivismo in grado da un lato di recepire l’idea del cambiamento e dall’altro di immaginare unmodus operandi che utilizzi le azioni non solo per depredare e sfruttare, ma anche per restituire e consegnare un lascito al contesto territoriale su cui si opera ed alle comunità che lo popolano; allora, forse, si potrebbe (dovrebbe) davvero ipotizzare un canale che renda più agevole e quasi necessaria questa attività di scambio fondata sulla stretta connessione tra impresa estera, territorio e comunità. Perché dunque non figurarsi un intervento che guardi al territorio non come ad uno spazio-luogo da saccheggiare, ma piuttosto come ad un ambito nel quale diffondere benessere e progresso tramite l’interazione con gli attori locali, il coinvolgimento della comunità, la diffusione di nuove competenze e la disponibilità nel concedere l’utilizzo dei propri asset? Perché non immaginare finalmente uno sviluppo territoriale e sociale che non si configuri più come una razzia, ma piuttosto come un ritorno per la collettività ospite?
Forse, esperienze come quella di Alessandro, rappresentano davvero il giusto punto di partenza per cominciare a porsi domande come queste.
Il report completo disponibile su: Senegal e Guinea Bissau