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In principio fu la Cina: il 31 dicembre 2019 vengono segnalati i primi casi del nuovo virus all’Organizzazione Mondiale della Sanità. Allo scoccare del 2020 inizia a emergere quella che più avanti sarebbe stata definita l’emergenza sanitaria più grande del nostro tempo. Il focolaio viene individuato in un mercato di Wuhan, importante snodo dei trasporti del paese e nei primi giorni di gennaio 2020 viene comunicata l’identificazione di un nuovo ceppo detto SARS-CoV-2, si registrano i primi morti e dal 23 gennaio 2020 la città di Wuhan viene messa in quarantena. Il contagio di diffonde presto in tutto il continente asiatico e nel mondo i diversi paesi iniziano l’evacuazione dei cittadini dalla Cina. L’oriente viene ora osservato con sospetto e i cittadini cinesi vengono tenuti a distanza e quasi ghettizzati in diverse città, dimentiche che il virus non conosce confini geografici né politici: si registrano infatti i primi casi di contagio internazionali e a fine gennaio l’Oms dichiara l’emergenza globale. Tra i paesi più colpiti dal contagio l’Italia, dove presto la situazione precipita, arrivando a inizio marzo a essere il terzo paese con più alto numero di contagi dopo la Cina e la Corea del Sud.

Le linee di condotta non vengono definite immediatamente neppure nel nostro Paese, dove l’incertezza dell’attesa nelle prime giornate di emergenza nazionale scatena reazioni contrastanti, tra scetticismo e psicosi: accanto ai primi titoli dei vari media che allertano la popolazione si affiancano subito opinioni sull’eccessiva preoccupazione e attenzione riservata alla situazione in atto. Il tutto procede fino a confluire in un nuovo passo indietro che chiama a una presa di coscienza finale.

La risposta dell’Italia ormai allo stremo e nella necessità di contenere il virus, arriva con il DPCM del 9 Marzo 2020, con cui il premier Giuseppe Conte annuncia la quarantena totale nazionale, per perseguire l’obiettivo comune di impedire una diffusione incontrollata del virus e aiutare il sistema sanitario internazionale a far fronte a un’emergenza di tale portata.

Il sentimento comune negli altri paesi sembra essere però discordante rispetto alle misure prese in Italia, spesso ritenute «eccessive», potendo così mantenere strategie di contenimento più morbide. Sembra quasi che la maggior parte dei paesi all’interno e fuori dall’Unione Europea, abbia tentato di estraniarsi rispetto all’emergenza che per prima ha colpito l’Italia, sbagliando, in quanto la velocità di risposta rispetto alla grave emergenza sanitaria che corre incontrollata appare quanto mai essenziale sul controllo dell’impatto mondiale del coronavirus.

Il passaggio dallo scetticismo che lascia spazio alla preoccupazione e che porta infine alle prime misure di contenimento, sembra venire espresso a turno dai vari capi di stato ed estendersi a macchia d’olio in tutto il mondo. Dal Regno Unito, alla Francia, alla Germania fino agli Stati Uniti: tutti fanno un passo indietro, o quasi, perché se la diffusione del Covid-19, la certificata pandemia, l’emergenza sanitaria è ormai globale, la risposta non lo è.

I leader mondiali hanno sottostimato inizialmente il pericolo, lasciando liberi e aperti assembramenti a concerti, raduni di puffi e menefreghismo della popolazione senza preoccupazione alcuna, che continuavano a guardare i propri vicini con diffidenza e incredulità. A far cambiare rotta senza dare adito a inutili discussioni è il rapporto redatto dal professor Neil Ferguson che con il Covid-19 Response Team dell’Imperial College delinea due possibili scenari che aiutano ora a comprendere le decisioni prese successivamente dai vari governi.

Nel Regno Unito, se il primo ministro inglese Boris Johnson esordiva con la strategia dell’“herd immunity”, ovvero immunità di gregge, con le parole “Il 60% degli inglesi si ammalerà, occorre prepararsi a perdere i propri cari prima del tempo”, dopo il confronto con il rapporto di Ferguson cambia anche la lettura del suo discorso che si rifà a due strategie possibili adottabili delineate nel rapporto dell’Imperial College: una prima linea d’azione detta mitigation, che prevede il “rallentare ma non necessariamente fermare la diffusione epidemica”; la seconda linea d’azione detta suppression che “punta all’inversione della crescita epidemica, mantenendo la situazione attuale indefinitamente. Scenari che portano imponenti sfide”. Il passaggio da una strategia all’altra è quindi dovuto alle stime effettuate sulla prima casistica adottata che prevedeva migliaia di morti e in virtù di questo si è passati alla seconda strategia, suppression, come risposta, che si traduce tuttavia in un invito al maggiore distanziamento sociale. Non certo misure stringenti insomma. Per funzionare questa linea d’azione dovrà, come scritto da Ferguson, essere mantenuta per molti mesi.

Così folgorato, anche il Presidente francese Emmanuel Macron corre immediatamente ai ripari decretando addirittura «Siamo in guerra» più volte ripetuto nel discorso alla nazione di lunedì 16 Marzo e annunciando restrizioni secondo quello che ora viene definito “il modello italiano” per arginare l’epidemia, chiamando a gran voce «l’unità nazionale».

Così pure dalla Germania la cancelliera Angela Merkel poche ore fa, annuncia misure più dure ma necessarie: «Il coronavirus sta cambiando la nostra realtà, come mai prima d’ora. Dalla seconda guerra mondiale non c’è più stata per il nostro paese una sfida così importante per la nostra solidarietà comune. Siamo una democrazia non viviamo di coercizione ma di conoscenza e partecipazioni condivise. Questo è un compito storico e può essere realizzato solo insieme».

Grazie al rapporto di Ferguson, anche i più scettici oltreoceano sono costretti a fare un passo indietro. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump si mostra preoccupato: «La pandemia in Usa potrebbe finire a luglio, ad agosto, ma se facciamo un ottimo lavoro». Così nelle parole del portavoce delle questioni di salute pubblica statunitense uno scenario già visto: «Siamo ad un punto di flessione critico in questo Paese, siamo dove l’Italia era due settimane fa in termini di numeri. Se si guarda alle proiezioni, ci sono tutte le possibilità di diventare come l’Italia».

Il fronte comune è dunque il richiamo all’unità nazionale per ciascuno, ora. Ciò che delude è il ritardo di questa comune linea d’azione che avrebbe dovuto palesarsi nell’immediato e non come un’epifania a turni per ciascun capo di stato, nell’illusione di poter proteggere i soli propri confini per la salvaguardia, principalmente, dell’economia di ciascun paese. È inevitabile che si conteranno i danni su più fronti, ma proprio per questo si fa necessario un disegno comune, internazionale.

A dimostrazione che in una situazione di emergenza globale i confini cadono inevitabilmente, le fotografie scattate in questi giorni che mostrano assembramenti di vario tipo, scattate davanti ai supermercati o nelle stazioni nelle quali non è più possibile distinguere la provenienza: ecco che fuga da Milano si trasforma in fuga da Parigi, che al posto della farina spariscono carta igienica e baguette e che la corsa all’amuchina diventa corsa alle armi in America…che dalla guerra al virus alla guerra civile passa uno starnuto.

Così come lo scetticismo viene lentamente abbattuto anche la solidarietà prova ad emergere, con gli aiuti sanitari contro il Coronavirus che dalla Cina giungono all’Italia, carichi di forniture a sostegno degli sforzi intrapresi dalle autorità italiane in tema sanità e correlati da uno sguardo più critico proveniente dal paese che per primo è stato colpito e che pian piano sembra stia debellando il virus.

In principio fu la Cina. Dall’altra parte del mondo, sembrava essere lontana, e non è mai stata una corsa a ostacoli, nessun vincitore né vinto si conterà in questa sfida, in questa “guerra” come nominata da Macron. La Cina, la Corea, l’Italia ed infine nessuna distinzione varrà più ma sarà necessario un unico fronte comune per riportare il mondo alla normalità, al di là dei confini.

Alice Cubeddu

Link: Imperial College Covid-19 Response Team

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