Stesso sapore di sempre
“Uno scienziato raccoglie da un contenitore un cucchiaio di quella che sembra essere farina gialla. La amalgama con del latte d’avena, e ne versa il risultato in una padella. Ci troviamo in un laboratorio. Mi viene servito un pan cake, che in tutto e per tutto sembra un pan cake normalissimo. Lo assaggio: ne ha anche il sapore, così come ne ho preparati mille volte per colazione”
Non è l’incipit di un libro di Philip K. Dick, né la scena di un film di Kubrick, bensì una parafrasi di quello che è realmente successo (a inizi 2020 circa) a George Monbiot, giornalista britannico del Guardian specializzato in ambiente.
Il laboratorio dove si trovava è quello dell’azienda finlandese Solar Foods, pioniera nella produzione di cibi “in provetta”.
Monbiot ha raccontato della sua esperienza nell’articolo, poi divenuto celebre, “Lab-grown food will soon destroy farming – and save the planet” (“i cibi prodotti in laboratorio presto distruggeranno l’agricoltura – e salveranno il pianeta”), dal titolo quantomeno provocatorio.
La ricerca di Solar Foods non ha ancora ricevuto una licenza di vendita, nonostante la loro prima fabbrica a uso commerciale dovrebbe essere operativa entro il 2021.
L’arma segreta di questa presunta rivoluzione è una “zuppa primordiale” di batteri raccolti dal suolo e moltiplicati in laboratorio, utilizzando come fonte di energia l’idrogeno estratto dall’acqua. La farina assaggiata da Monbiot potrebbe potenzialmente divenire la materia prima per qualsiasi alimento creato in provetta, dalla carne al pesce ai sostitutivi dell’olio di palma.
Di quanti pianeti abbiamo bisogno?
Certo il giornalista britannico non è l’unico a sostenere l’assoluta imminenza e grandiosità di una simile svolta alimentare, bensì la sua voce si alza da una folta schiera di scienziati, magnati hi-tech, ambientalisti e politici che la auspica. L’argomento principale in questo caso è che il nuovo metodo di produzione alimentare permetterà di risparmiare immense quantità di risorse naturali e investimenti, diversamente non solo da ogni metodo di agricoltura intensiva, ma anche estensiva. Si definiscono estensive le pratiche di coltivazione ecologiche, quindi meno invasive, richiedenti meno manodopera, meno inquinanti, che nel complesso producono meno per singolo ettaro. Ebbene, i sostenitori dell’alta tecnologia alimentare affermano che se si cercasse di soddisfare il fabbisogno dell’intera umanità con metodi ecologici, non basterebbero lo spazio e le risorse disponibili su un solo pianeta: ne occorrerebbero diversi.
Parlare di nuove catene di produzione alimentare risulta quantomeno stonato in un momento storico in cui un’enfasi senza precedenti viene posta dalla comunità internazionale su un “Green New Deal”, un “European Green Deal”, una ripartenza ecologica post pandemia, una “2030 Agenda for Sustainable Development”. I governi hanno compreso che procedendo al passo corrente di consumo e devastazione del pianeta entro il 2050 si saranno già determinati danni irreparabili. È ben noto che sull’altare dell’allevamento odierno di bestiame si sacrificano interi ecosistemi, che il riscaldamento globale sta trasformando pianure fertili in “dust bowls” (conche di sabbia), che l’utilizzo di acqua è già massimizzato.
Alla luce di questi e numerosi altri effetti negativi dell’impronta umana, può l’uomo stesso modificare i suoi comportamenti e vivere armonicamente con l’ambiente, senza ricorrere a tecnologie sostitutive dei ritmi naturali e dai molteplici aspetti ancora oscuri?
Non si può rimanere in attesa passiva.
Le attività umane d’altro canto obbediscono alle leggi della domanda e dell’offerta, dei consumi di massa, ai dettami delle lobbies. Forse si è iniziato a guardare ad alimenti “alternativi” perché solo un’interruzione dei sistemi produttivi esistenti oggi, e che sicuramente tanto danno arrecano, potrebbe cancellare la brutalità dell’uomo verso il pianeta?
Se si accettasse quest’ultimo come assunto, e si decidesse di perseguire un’agricoltura organica e ecologica per soddisfare i bisogni della popolazione mondiale, sarebbe dunque necessario uno impegno mai dimostrato prima da parte dei governi, e dei loro enti rappresentativi a livello sovranazionale, per una regolamentazione inflessibile a lungo raggio d’azione nel futuro.
Come anche Monbiot riconosce da una prospettiva opposta, non si può attendere “passivamente” che delle tecnologie immature ci salvino.
Mario Daddabbo