La gioia di vedere quel genio senza senso alleviare per un istante le pene del nostro quotidiano è volata via per sempre. Lo sgorbio divino, magico, perverso è morto, “ucciso dalla fatica scrive Emilio Marrese– di essere troppo grande per un uomo solo“. Appartengo alla generazione di sportivi e di tifosi convinti che Diego Armando Maradona sia il calcio, tout court. Io lo ho odiato con tutto me stesso, da ragazzino del nord, tifoso di una squadra del nord, perché, da attore consumato, da Mourinho ante litteram, costruiva un muro attorno a Napoli, o dentro o fuori. E l’ho amato con tutto me stesso, da ragazzino innamorato del pallone, perché il calcio, devo ripetermi, resterà per sempre lui.

Oggi, come tanti, ho il cuore a pezzi, perché se ne è andato un pezzo della nostra storia. L’influenza, l’impatto di Maradona su Napoli e sull’immaginario collettivo degli ultimi quarant’anni sono tali da spingere un “maradonologo” come Jvan Sica a suggerire la necessità di un Istituto di Studi Maradoniani: sarebbe, infatti, “l’unico modo per studiare in maniera continuativa e seria un fenomeno che è enorme e potente, non liquidabile con pezzi o libri nostalgici (per quanto ammirevoli)“. La gioia di Napoli

Anzi, come ho sentito ripetere da molti napoletani, con la morte di Diego finisce il Novecento di Napoli. Con lui, finisce una volta per tutte quel Rinascimento partenopeo che, con Luciano De Crescenzo, Massimo Troisi e Pino Daniele, aveva messo il capoluogo campano al centro del planisfero. Oggi, non posso fare a meno di chiedermi se sia esistita davvero una Napoli pre Maradona.

Nonostante gli attacchi e gli insulti via social che molti hanno riversato sul fenomeno argentino e sulla sua morte, quella di Diego Maradona è stata una clamorosa storia di rivincita e di riscatto, la parabola di uno degli “ultimi”, capace però di volare grazie a un talento quasi soprannaturale e di regalare felicità, magia e sogni a un’umanità disperata e dolente“, come ha scritto il Manifesto.

Maradona ha fatto sognare, ha creato identificazione, ha dimostrato che gli ultimi possono diventare primisintetizza Matteo Grandi su Facebook-; che i poveri possono diventare Re. Il pallone è stato lo strumento di questa riscossa, il mezzo per scrivere la leggenda. Non capirlo significa non avere un briciolo di empatia, attaccarsi ai suoi limiti di uomo significa non aver compreso l’immensità della sua parabola“.

Questo articolo avrebbe dovuto scriverlo Gianni Mura, magari per Scarp de’ tenis. Gianni avrebbe di sicuro saputo cogliere l’essenziale poesia in ogni centimetro dei suoi scarpini. Io no, non ne sono capace, infatti ho lasciato qualche giorno tra la fine della vita terrena di Diego e il momento nel quale sono finalmente riuscito a leggere sullo schermo quello che Maradona è stato per me nel corso degli ultimi decenni. Solo per me, sì, non ho la pretesa di poter leggere nella mente di quanti lo hanno amato e odiato.

Certo, Gianni era di un’altra pasta, lui forse ci sarebbe riuscito, io credo di essere tormentato da più dubbi e da meno talento. Quello che posso fare, però, è stabilire cosa sia possibile e cosa no, almeno a grandi linee. Abbiamo di certo molti diritti sul campione (tutti noi, napoletani e non, abbiamo avuto la nostra libbra di carne), ma sull’uomo no, non ha voluto né potuto appropriarsene nemmeno Gianni Minà, che di Diego fu amico vero, quindi so (e dovreste sapere anche voi) che sarebbe ingiusto cercare di farlo.

Ciò non significa chiudere gli occhi sulle tenebre che hanno accompagnato la sua vita, facendo da contraltare alla sua carriera, ma dobbiamo capire dove stia il confine tra diritto di cronaca e insulto gratuito. Alcuni vorrebbero “separare l’uomo dalle sue gesta sportivescrive Daniele Manusia su l’Ultimo Uomo. Far sparire l’essere vivente, terreno, in nome del suo talento divino, calato dall’alto; o viceversa: dimenticare quello che è stato “in campo” per via di quello che ha fatto “fuori”. Ma sarebbe come provare a staccare un’ombra dal corpo che la proietta passandogli un taglierino intorno alle scarpe“.

Esempio clamoroso di questa volontà dicotomica è il gesto di Paula Dapena, la calciatrice spagnola che ha protestato contro il ricordo del Pibe girandosi e mettendosi seduta prima della partita contro il Deportivo La Coruna. Le accuse di violenza e, addirittura, di stupro nei confronti di Maradona hanno ripreso a circolare con forza e Depena ha ricevuto il sostegno di molti, sui social (oltre a delle assurde minacce di morte), facendo balenare una domanda in apparenza più che lecita, quasi scontata: è giusto idolatrare un violento stupratore?

La domanda, però, è mal posta. Come ci ricorda il portale di fact-checking Bufale.net, non sembrano esserci elementi con cui confermare la tesi su Maradona accusato di stupro. Eppure, di nuovo, le tenebre lo accompagnano e noi possiamo solo prenderne atto. La protesta di Depena

Dinamopress riporta in questi giorni un articolo di Camila Parodi, Lisbeth Montaña e Nadia Fink, tre donne argentine e maradoniane che scrivono di politica, amore e calcio. Il pezzo si intitola “Perché amiamo così tanto Diego se siamo femministe? e credo di poterne estrarre poche righe per riassumerlo alla perfezione: “Io sono tutto questo, come accade alla maggior parte di noi: siamo un mare di contraddizioni che ci fa essere vive e non solo per mangiare dormire e guardare la tv, ma per bruciare e cambiare tutto come ha fatto Diego“.

Insomma, Diego solleva più dubbi che certezze. Quello che è sicuro, però, è che “Maradona s’è sempre schierato nel mondoci ricorda Davide Enia-, con sfrontatezza, spudorato, senza la miseria del calcolo, senza la patologia dell’ansia commerciale. Prendeva posizione, la ostentava, la confermava. E Maradona stava dalla parte della barricata più precaria, scomoda e fragile, scegliendo i morti di fame e i pezzenti, lui nato poverissimo, lui che mai ha rinnegato la polvere da cui è venuto. Maradona s’è schierato a testa alta, con una generosità eroica, con chi vive nella marginalità. Ha scelto gli ultimi, non i padroni. Li ha sempre odiati, i padroni“. Contro i padroni

Acceso-spento-acceso-spento-acceso-spento. Maradona è sempre stato la rappresentazione fisica dell’eterna alternanza tra yin e yang, tra giorno e notte, tra bene e male. Le sue cadute erano tanto importanti e spettacolari quanto potevano esserlo i suoi voli tra le stelle. Ma lui, Diego, lo sapeva. Eccome. Nell’estate del 1991, su Repubblica, Gianni Minà gli chiedeva: “Come spiegherai questa storia alle tue figlie?“. E il Dio del calcio rispondeva: “Molto semplicemente. Dirò che papà non è perfetto, non è un santo, che ha sbagliato anche lui, che era il più bravo a giocare al pallone, ma che questo non lo ha salvato ad un certo momento dall’infelicità, dopo tanta allegria. Così ha cercato una stupida fuga dalla realtà“.

Il suo talento –prosegue Manusia-, quello che è riuscito a farci, non sono una giustificazione sufficiente per gli errori e le ferite che può aver causato a chi gli stava vicino. Così come non lo sono la solidarietà, la disponibilità per la gente, o il fatto che la camorra fosse una presenza inevitabile in quegli anni. Ma chi ha amato Maradona lo ha fatto nelle contraddizioni, piuttosto che nonostante esse“. Nelle contraddizioni, piuttosto che nonostante esse. Esiste forse un altro modo per definire l’amore?Napoli, il murale di Jorit

Stefano Piazza

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