“Ogni villa, ogni borgo, ogni paese è testimone di sue donne, scherzi e imprese!”
Rintanato in un piccolo teatro abbandonato, circondato da libri, cd, immagini d’arte, statue parlanti e personaggi servili, bizzarri e a tratti irritanti, Giovanni vive un’esistenza di solitudine e oscurità, esiliato in una volontaria reclusione e incuria, affetto da un malessere psico-fisico galoppante e accompagnato dalle note della musica mozartiana ascoltata grazie ad un vecchio riproduttore di CD recuperato chissà dove.
Questa la versione messa in scena dalla regista Serena Nardi che, sulla scorta della rivisitazione di Saramago della nota opera di Wolfgang Amadeus Mozart, nasconde l’assenza (necessità) del vero amore dietro il falso perbenismo dei protagonisti. Un’inversione di ruoli e di generi che attribuisce originalità ad una commedia (tragedia, perché il Don Giovanni non è un’opera divertente) dove il gioco teatrale fatto di confusione e continua alterazione della realtà perdura per tutta la durata dello spettacolo fino ad interrompersi improvvisamente. Uno scenario bislacco realizzato in un unico atto dove “Don Giovanni”, ormai stanco e malato, vive nel ricordo di un passato eternato in un quadernone che funge da contenitore di tutti i nomi delle donne conquistate negli anni. Una vita vissuta all’insegna della conquista irrefrenabile quella di Don Giovanni – 2065 donne, chi sarà stata la prima? Quella alta, quella magra, quella bionda, quella bruna … dopo averne sdraiate 2065 chi può ricordare la prima donna? -, ma chi vive nella continua ricerca di amplessi non è forse la persona più distante dall’amore?
Una consapevolezza a cui giunge solo verso la fine il pover’uomo che, spogliandosi del suo ruolo di “Don” – Io non sono Don Giovanni; è vero, tu sei solo Giovanni” – comprende di essere stato concupito ma mai amato, perché chi è alla continua ricerca di sesso non conosce l’amore, ma soprattutto non è in grado di amare.
Ed ecco che ancora una volta un personaggio molto più che noto al panorama artistico-culturale mondiale diventa il simbolo dell’“uomo ai tempi di internet”, affetto da infantilismo e incapacità relazionale, protagonismo social, carenza di empatia e alienazione tecnologica. Un uomo che non ha più una fisicità ma una mente caratterizzata da una bulimia affettiva che sfocia in una solitudine falsamente appagata dagli strumenti della nostra epoca. La rappresentazione di una società moderna dove è drammaticamente più facile piangere per un amore virtuale nato e finito su internet, piuttosto che crescere e avere il coraggio di viverne uno reale.