E poi…? È la domanda che mi ingombra la testa disturbando fino ad intaccarla la gioia della rappresentazione in scena martedì corso al Teatro della Corte. Succede ad ogni spettacolo. Anche ora, a distanza di anni dalla prima volta nella quale mi sono trovata spettatrice di questa straordinaria opera che sarebbe riduttivo chiamare recita.
Vedere le persone ristrette in carcere muoversi sul palco come e con attori veri, intuire la loro cauta eccitazione, respirare le emozioni intense e contrastanti dei familiari nelle prime file (le “autorità” debbano sedersi dietro di loro grazie all’attenta cura ed esatta gerarchia imposta dagli organizzatori), sentire la partecipazione degli amici in galleria che applaudono fino a spellarsi le mani e a tratti gridano per fare sapere che ci sono e che resteranno dalla loro parte se non al loro fianco, percepire l’incredula ammirazione degli spettatori “comuni”, è un’esperienza unica che scuote e interroga anime e coscienze ed induce a infinite riflessioni.
Ma su tutte, dall’inizio dello spettacolo, risuona nella testa quel “e poi”? Quando le luci si spengono e l’ultimo battito di mani avrà smesso di risuonare nel teatro, quando amici e parenti saranno andati via nelle loro case così familiari e così inaccessibili, quando si torna “dentro”, quando ci si ritrova nuovamente spogliati e privati di tutto, quando si ritorna ad essere semplici detenuti, soli, tra centinaia di altri ristretti, e non più acclamati attori: quanto sembra stretta la cella e interminabili le ore?
O invece, la magia di quei momenti accarezza l’anima, lenisce il dolore della prigionia, motiva la volontà e sollecita la speranza? E fino a quando dureranno gli effetti di questo incantesimo?
Sono pensieri dolenti e faticosi, che istintivamente vorremmo allontanare da noi, e restare così, semi incoscienti a goderci la bellezza della recitazione senza altre implicazioni. Vorremmo, come sempre, non sapere, non ricordare che esistono luoghi nelle nostre città dove le persone vengono private per legge del diritto alla libertà personale che pure vorremmo inviolabile e dove troppo spesso le stesse persone vengono, contro ogni legge, saccheggiate anche della loro dignità. Non vorremmo sapere, ma non è possibile non interrogarsi. Non a teatro, non con questi attori. Ai quali, nel corso della rappresentazione in qualche forma ti sembra di esserti “affezionata” e di averne intuito carattere e qualità.
E pensi al peso forse ingestibile di quella speranza che hai visto balenare nei loro occhi. Ti auguri che non si spenga e che qualcuno accanto a loro gli offra strumenti per gestirne la responsabilità e agevolarne la maturazione. Pensi alle altre migliaia di detenuti che non hanno avuto la possibilità di sperimentare questa opportunità, di partecipare a questa magia.
Pensi a chi non ce l’ha fatta, ai 33 detenuti che nei primi 100 giorni dell’anno hanno perso la vita nelle nostre carceri che pure dovrebbero essere i luoghi più sorvegliati e dunque più sicuri. Rifletti e ti indigni per il costante sovraffollamento: su 46.904 posti regolamentari disponibili nei 191 istituti di pena italiani sono presenti 60.512 detenuti,13.608 in più rispetto alla capienza regolamentare, un dato in crescita nell’ultimo anno, di oltre 2.000 ristretti.
E non tanto perché in carcere entrino più persone ma perché diminuisce il numero di dimissioni dal carcere a causa della scarsa fruibilità delle misure alternative: 5.158 ristretti stanno espiando una condanna inferiore ai due anni e dunque potrebbero usufruire di misure alternative al carcere ma ciò nonostante rimangono prigionieri degli istituti a sovraffollare celle e alimentare rabbia e disperazione.
Mauro Palma, Garante nazionale per le persone private della libertà, nella relazione annuale ricordava che “ogni persona…. ha diritto al rispetto della propria dignità personale e alla propria integrità psichica e fisica. Un diritto che comporta altresì l’obbligo di garantirle la maggiore autodeterminazione possibile…”. A essi io aggiungo il “diritto alla speranza”.
Assistere alla seppure momentanea restaurazione di questo diritto è un’esperienza impegnativa e preziosa.
Alessandra Ballerini
(versione integrale dell’articolo uscito il 14 aprile 2019 su la Repubblica di Genova; grazie a Mauro Biani per la vignetta)