intervista a Jean-Baptiste del Amo, autore del “Regno animale”
Alla fine del XIX secolo, nelle campagne francesi la vita di uomini e animali si sovrappone, fatta di istinti corporei muti e brutali, anche quando si tratta di sgravarsi e disfarsi di un aborto per una donna, o di divorare i cuccioli appena nati per una scrofa. Non si ha tempo per occuparsi dei figli, che crescono solo per apprendere i compiti di cui occuparsi in fattoria, principalmente dei pochi maiali che ci si può permettere. I cugini Marcel e Léonore, che si sposano ed ereditano un appezzamento di terra, attraversano il Ventesimo secolo con le sue brutalità, in un inquietante parallelismo tra dimensione umana e animale. Marcel, tornato alcolizzato dal fronte della prima guerra mondiale, accresce l’allevamento di maiali, che nelle mani del figlio Henri assume le dimensioni di massa di un orribile lager di carne nata per morire, stipata in gabbie piccolissime e infette. Questo il “Regno animale” ritratto da Jean- Baptiste del Amo, che con questa opera barocca e forte come un pugno allo stomaco (in Italia pubblicata da Neri Pozza per la traduzione di Margherita Botto, pp. 432, 18 euro), è stato finalista ai tre maggiori primi letterari di Francia, il Goncourt, il Médicis e il Fémina.
Cosa voleva innanzitutto raccontare in questo romanzo a tinte così forti, Monsieur del Amo?
Mi interessava innanzitutto ritrarre una violenza che si trasmette ed eredita per via familiare, vista dalla prospettiva di una porcilaia, che ne costituisce una sorta di rispecchiamento simbolico. E mi interessava raccontare anche la violenza dell’uomo sugli animali, cui ho avuto occasione di assistere proprio in occasione della visita di una porcilaia.
Pare che umani e animali provino le stesse sensazioni.
In effetti è così, soprattutto la prima parte vuol dare l’idea della condivisione di sensazioni tra uomini e animali alla fine del XIX secolo. La fisicità degli umani determina il rapporto con la terra, che è brutale e fisico.
Quali sono i suoi riferimenti letterari?
Se potessi dire di averne uno, quello sarebbe “La terra” di Emile Zola, ma è vero anche che per molti versi mi ispiro alla lettura di un romanzo come “Sodoma” di De Sade, da me inteso come esperienza fisica e di libertà. E’ vero anche però che le mie maggiori fonti di ispirazione sono sensoriali. Faccio infatti riferimento alla pittura di Bruegel, con l’intento di dare un panorama molto visuale e anche l’idea di un grande movimento cosmogonico.
Un’altra delle linee di trasmissione di violenza di cui si parla nel suo romanzo è quella patriarcale.
In effetti le donne del romanzo sono vittime del patriarcato, subiscono la mascolinità e cercano di fare resistenza. Catherine ad esempio, figlia di Henri, decide di difendersi rinchiudendosi nella depressione e di lasciare tutto, così come il fratello Jerome si trincera nell’autismo, rifiutandosi di parlare.
E della parte animale di questo romanzo cosa ci dice?
La porcilaia costituisce la modalità industriale del cinismo capitalista, reso in modo massivo. E non sono solo gli animali a essere le vittime ma anche i salariati che lavorano nei mattatoi in condizioni di grande precarietà. Finiscono per sviluppare forme di violenza legalizzata infierendo sadicamente sugli animali. La violenza aumenta e si banalizza in questi sistemi chiusi.
Cosa ha significato per lei visitare la porcilaia che ha dato vita al romanzo?
Si è trattato di un vero e proprio terremoto. Certamente sapevo che per mangiare gli animali dovevano essere uccisi ma non ero preparata a tutta questa crudeltà. Sono venuto a conoscenza dei pulcini che vengono stritolati perché non servono a fare uova, dei vitelli che vengono uccisi perché servono solo per far continuare a produrre latte alle vacche. E’ il quadro di una sofferenza immensa.
Barbara Caputo
PhD., Antropologa