La fuga di cervelli è a tutti gli effetti un movimento migratorio
Lunedì scorso, in occasione di un incontro a Fano, il Ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha concluso la sua difesa del Jobs Act con una dichiarazione che ha subito destato polemiche sul web e non solo.
“100 mila giovani in fuga all’estero? Alcuni meglio non averli tra i piedi”. Immediata la reazione unanime degli italiani allo strafalcione del Ministro che ha portato alla firma della sfiducia da parte di molte forze politiche. Polemica da parte dei giovani ma anche da parte di tutti coloro che riconoscono le difficoltà di una generazione che sgomita per costruirsi un futuro in un Paese che per ora non offre prospettive luminose.
Io rientro nella categoria dei cervelli che non sono ancora fuggiti e mi rincuora vedere che una dichiarazione simile, oltretutto da parte di un’autorità, faccia scandalo. Una magra consolazione che però ha il sapore di solidarietà e soprattutto senso della realtà condiviso.
Così come quella volta che Elsa Fornero, altro genio delle relazioni pubbliche, fece un appello ai giovani chiedendo di non essere schizzinosi sul lavoro.
Ora vorrei dire una cosa a tutti coloro che fanno ancora finta che il problema sia dei giovani e non del sistema. Mi ritengo fortunata perché ho potuto completare un percorso di studi ma ad oggi la mia fortuna più grande è di avere qualcuno che possa ancora provvedere al mio mantenimento. Ho trascorso gli anni dell’università svolgendo sempre lavoretti partime, talvolta più di uno contemporaneamente, perché non sono una che si siede sugli allori e non sono nemmeno schizzinosa. Dopo la laurea e un Master pensavo avrei finalmente potuto essere indipendente. Invece il mondo del lavoro si è rivelato tutt’altro che amichevole. Il lavoro in alcuni settori si trova ancora, in altri decisamente no. Ma non basta trovare un posto vacante, poi inizia la lunga trafila degli stage non retribuiti, senza finalità di assunzione, senza certezze se non quella di essere una risorsa da spremere fino all’osso. Massima produttività con il minimo investimento da parte dell’azienda insomma. Eppure la tendenza della maggioranza non è quella di rinunciare, perché poco è meglio di niente a mio parere.
Quindi l’inseguimento continua e la mia generazione rincorre traguardi che, se esistono, sono ben nascosti tra la nebbia. Il risultato è un senso di sfinimento, frustrazione, talvolta annichilimento. Perché poi di fatto le giornate restano fatte di ansia, orari folli, frenesia di chi svolge più lavori per arrivare alla fine del mese. Non c’è più tempo per pensare, per leggere, per continuare ad acculturarsi, per le passioni, tutto si limita a brevi spazi temporali risicati e incastrati nel ritmo incalzante.
La vita dell’individuo non dovrebbe mai ridursi a una sola attività, non dovrebbe mai essere solo lavoro per non incappare nell’appiattimento culturale, nell’omologazione e nella perdita di specificità.
La fuga di cervelli è a tutti gli effetti un movimento migratorio che ricorda quello del dopoguerra, quando i nostri nonni lasciavano il paese in cerca di possibilità. Coloro che sono andati all’estero hanno ricevuto un’offerta migliore o semplicemente ne hanno avuta una che in Italia non c’è. Sono stati fortunati o sono in cerca di una chance, e la sfortuna è tutta per questo paese che perde risorse perché non le considera tali. I giovani sono un valore per una nazione ma qui spesso mi pare sia il contrario. A volte siamo un problema. Eppure chi ha figli dovrebbe capire e chi non li ha potrebbe provare a immaginare cosa significhi non avere prospettive, non riuscire a fare progetti per mancanza di una base vagamente stabile.
Quando cerco di spiegarmi perché le cose stanno così non riesco a trovare una giustificazione che basti. So che l’individualismo genera indifferenza, e questa non è mai stata motore di spinta per il cambiamento.
La sfiducia del Senato al ministro Poletti non è nulla in confronto a quella che la mia generazione, chi più chi meno, prova nei confronti di questo sistema.