Tempi e luoghi del cicloattivismo
Vengono definite guerrilla bike lanes e nella notte tra 31 maggio e 1 giugno ne è apparso un esemplare anche sul cavalcavia Bussa a Milano, tra il quartiere Isola e la stazione di Porta Garibaldi. Si tratta di piste ciclabili DIY (Do It Yourself) che vengono prodotte con vernice e stencil da gruppi di attivisti con l’intenzione di reclamare e delimitare porzioni di carreggiata che siano riservate e agibili alle biciclette. L’opera di riappropriazione dello spazio urbano può essere realizzata da collettivi o da singoli, in modo organizzato o invece spontaneo, e può concretizzarsi con diversi strumenti, anche i più originali, come accaduto recentemente a Providence (USA). Nel caso milanese di cui sopra, è stata arrangiata una prosecuzione artigianale della corsia riservata alle biciclette che si srotola sul cavalcavia, andando ad integrarla all’estremità, dove ancora era assente. La protesta contro l’ingerenza motorizzata con l’integrazione della segnaletica a mezzo di spray non è però un fatto inedito per lo stivale: possiamo trovarne un esempio in Toscana con il livornese stoppe del 2013 e il successivo ari…stoppe. Questa guerriglia urbana ibrida tra infrastruttura e street art è una pratica diffusa in tutta Europa e in tutto il mondo. Un recente episodio in Lettonia ha riportato agli onori della cronaca quella che ormai è una prassi diffusa globalmente e si è risolto con la rimozione della segnaletica orizzontale da parte dell’amministrazione cittadina, dopo che anche Bruxelles era stata oggetto di analoghi interventi clandestini. Oltreoceano il fenomeno ha spopolato negli ultimi anni: nuove piste ciclabili artigianali sono state create in diverse località degli USA, tra le quali New York e San Francisco, ma anche in Messico, con le azioni attuate nel 2011 a Città del Messico e a Guadalajara, e in Australia.
L’estremità del Cavalcavia Bussa dopo il restyling da parte degli attivisti (fotografia tratta da bikeitalia.it)
Il medesimo obiettivo viene perseguito dagli eventi di critical mass, un fenomeno oggi diffuso su scala globale la cui genesi risale al 1992, quando si radunò a San Francisco l’ancora limitata massa critica di 48 ciclisti. Un recente esempio italiano di pedalata collettiva che ha incluso anche la creazione di guerrilla bike lanes è quella che ha attraversato a marzo la città di Torino per evidenziare la carenza di una pista ciclabile che unisca i poli universitari del capoluogo piemontese.
Oggi in alcuni paesi europei quali Paesi Bassi e Danimarca non risulta più necessario praticare queste forme di lotta per il diritto alla sicurezza della ciclomobilità, in quanto queste aree hanno già attraversato da tempo una fase di contestazione e rinnovamento che ha condotto alla situazione attuale, fino a rendere l’uso della bicicletta un elemento intrinseco della cultura locale e un fattore di integrazione. Infatti le radici del fenomeno del cicloattivismo sono da ricercarsi proprio negli Anni Settanta olandesi, e in particolare nell’impegno del movimento Stop de Kindermoord. Il boom economico degli Anni Cinquanta e Sessanta, con un’impennata di produzione e consumi, aveva contribuito anche a un incremento notevole nell’utilizzo delle automobili. Le conseguenze non si erano limitate a una sempre più ingente mole di traffico e al mutamento del panorama urbano, ma si erano concretizzate nel 1971 in 3,300 decessi a seguito di incidenti stradali, tra cui 400 bambini. Il titolo di un articolo del noto giornalista Vic Langenhoff (Stop de Kindermoord, in cui il termine Kindermoord si riferisce agli omicidi stradali di bambini olandesi), che perse un figlio proprio in queste circostanze, diede il nome al più noto movimento sociale che si adoperò in manifestazioni pacifiche affrontando con polso fermo la situazione. Il supporto che giunse in un secondo momento dal governo e la congiuntura economica dettata dalla crisi petrolifera che nel 1973 fece lievitare il prezzo del carburante contribuirono in maniera determinante a una nascente rivoluzione della mobilità olandese: agli incentivi verso l’utilizzo della bicicletta fecero seguito gli investimenti sulle infrastrutture, determinando un cambiamento nell’aspetto e nella vivibilità delle città dei Paesi Bassi. Quegli anni si rivelarono decisivi nello sviluppo della coscienza su due ruote anche in altri paesi, su tutti la Danimarca.
Manifestazione pacifica di ciclisti olandesi (fotografia tratta da dutchbikeguy.wordpress.com)
Nonostante anche l’ampia diffusione della bicicletta, sommata ad auto, motociclette e pedoni, abbia le proprie complicazioni nelle località a più alta densità di mezzi a due ruote, è innegabile che sia una soluzione auspicabile per agire una serie di ambiti, quali livelli di inquinamento, traffico e mobilità, salute. Anche l’Unione Europea si pronuncia a favore con la Transport Declaration of Luxembourg on Cycling, che promuove e definisce climate friendly questo tipo di mobilità. A monitoraggio del quadro europeo, ECF (European Cyclists’ Federation) ci mostra il barometro 2015 secondo il quale la Danimarca sarebbe ormai maggiormente bike friendly rispetto ai Paesi Bassi, e l’Italia invece avrebbe perso terreno passando dalla quattordicesima alla diciassettesima posizione del ranking EU. Il divario tra il Nord Europa e l’Italia risulta netto anche prendendo in considerazione l’utilizzo della superficie urbana: Amsterdam (superficie di 219,33 km², popolazione di 851.573 persone) può vantare più di 500 km di piste ciclabili e la rete di Copenaghen (superficie di 86,20 km², popolazione di 569.557 persone) raggiunge complessivamente i 390 km, laddove Milano (superficie di 181,67 km², popolazione di 1.368.590 persone) riserva alle biciclette meno di 200 km di bike lanes, seppur in netto aumento rispetto al passato. Riguardo la situazione complessiva in Italia, alcuni dati sono rincuoranti, come l’aumento del bike sharing secondo l’Istat e l’incremento delle piste ciclabili, ma esistono ancora differenze tangibili tra Nord e Centro-Sud.
in copertina un murales immortalato a Montreal da Martin Reis