Il secondo appuntamento con “Segni tra il Cemento, riflessioni sull’abitare” arriva in un momento complicato per il nostro paese colpito ormai da settimane dall’emergenza sanitaria connessa all’epidemia di COVID-19, il nuovo coronavirus che ormai si è diffuso in tutta Italia causando più di un migliaio di morti e portando allo stremo le condizioni di un sistema sanitario che, per quanto resti all’avanguardia, rivela oggi tutte le sue criticità.
In questa sede non è nostro obbiettivo soffermarci sull’analisi di questa emergenza, sulle ordinanze emanate del Governo italiano in queste settimana e sulle risposte della popolazione. Segni tra il Cemento parla di abitare e in questi giorni in cui siamo chiusi nelle nostre case avendo ridotto gli spostamenti a quelli essenziali e minimamente necessari, di pensieri sul nostro abitare sicuramente avremo occasione di farne tanti. Ora che la casa si trasforma da luogo di partenza e ritorno quotidiano a spazio di vita “forzato” è legittimo interrogarsi ancora di più sul significato dell’abitare e delle sue molteplici forme.

  Se in precedenza abbiamo sostenuto la necessità di abbandonare una nozione di casa che la inquadri unicamente in quanto oggetto, in questo caso proveremo a tracciare sinteticamente l’origine di questa dicotomia, che guarda alla casa come un contenitore e lascia in disparte le pratiche dell’abitare. La separazione nasce, sosterremo, da una dicotomia ancora più radicata che trova senso nella tendenza generale a separare tra ciò che è natura da un lato, e ciò che è cultura dall’altro. Solo alla luce di questa illusoria separazione tra ambiente naturale e ambiente costruito è possibile immaginare la casa unicamente come oggetto, tralasciando ciò che abbiamo definito come una più complessa “grammatica dell’abitare”.

In questo capitolo affronteremo il confronto tra una “prospettiva del costruire” ed una “dell’abitare” ripercorrendo alcune riflessioni di un antropologo inglese, Tim Ingold, che molto si è occupato di relazioni uomo-natura, e che in questo suo percorso si è dovuto scontrare, come noi, con la questione dell’abitare.

 

CASTORI, CAPANNE, CEMENTO ARMATO

L’abitare tra natura e cultura

 “Non è che noi abitiamo perché abbiamo costruito; ma costruiamo e abbiamo costruito perché abitiamo, cioè perché siamo in quanto siamo gli abitanti. (…) Il costruire è già in sé stesso un abitare. (…) Solo se abbiamo la capacità di abitare possiamo costruire”  

Heidegger, Costruire abitare pensare, 1952

 

  Abbiamo precedentemente discusso del come prendere in considerazione l’abitare nella sua complessità e affermare l’importanza di un “diritto all’abitare” al di là di un “diritto alla casa”, ci permetta di superare la mera identificazione della casa con un oggetto, un contenitore. Questa distinzione è essenziale perché permette da un lato di considerare la casa come il più ampio terreno di una pratica dell’abitare intesa in tutta la sua complessità culturale, politica e relazionale. Dall’altro il superamento di questa oggettificazione ci consente di ampliare la dimensione dell’abitare senza limitarla unicamente alle mura domestiche, considerando anche diverse categorie di persone che vivono in contesti differenti dalla “casa di proprietà” come dimora fissa e stabile nel divenire temporale: homeless, migranti, gruppi nomadi, viaggiatori, transfrontalieri, popolazioni “tradizionali”.

  In questo senso possiamo dire che oggi nell’esperienza dell’abitare si incontra non solo lo spazio della casa, ma anche quello più ampio, aperto e relazionale dei paesaggi urbani, dei quartieri sottoposti a continua trasformazione, degli spazi sempre più connotati da differenti culture. Nella pratica dell’abitare entrano in gioco diversi “ambienti” anche ben oltre lo spazio urbano che ben conosciamo. Ma che rapporto esiste quindi tra abitare, costruire, ambiente, spazio e natura e dove si inserisce l’architettura, “l’arte del costruire” e organizzare gli spazi? Quello tra abitare e costruire è un rapporto interessante perché consente di svelare una distinzione data a lungo per scontata e che sottende la dicotomia tra casa-oggetto e pratica dell’abitare.

Il quarto capitolo di Ecologia della Cultura dell’antropologo Tim Ingold comincia con il riconoscimento, da parte del brillante autore, di un errore all’interno della stessa prospettiva da lui tracciata nel tentativo di comprensione delle relazioni che legano cultura, ambiente e spazio costruito[1]. Al di là del mea culpa, fatto singolare e non certo quotidiano all’interno di una parte del mondo accademico, il capitolo è estremamente illuminante nel riuscire a farci riflettere e districarci all’interno di un groviglio di concetti e significati che prendono le mosse da uno di quei dubbi che rientrano a pieno titolo nella serie: “è nato prima l’uovo o la gallina?”. È questo il dilemma su cui si concentra Ingold: “è nato prima l’abitare o prima il costruire?”

In alcuni scritti precedenti l’autore, prendendo in considerazione il lavoro del biologo estone Jakob Von Uexküll, si soffermò nel tentativo di tracciare una forma di separazione tra la dimensione dell’abitare umano e quella animale. All’interno di una prospettiva inizialmente definita “del costruire”, l’antropologo rintracciava questa separazione della distinzione tra progetto ed esecuzione. 

Cosa differenzia ad esempio, dal punto di vista del rapporto tra costruire-abitare, la tana di un castoro da casa nostra? Entrambe sono il prodotto di attività specifiche degli esseri che le compiono, eppure, in prima battuta, ci sembra impossibile ammettere l’identicità delle due pratiche. Un castoro, il quale replica il suo modello abitativo indipendentemente dal contesto ambientale, non può essere paragonabile ad un essere umano, le cui abitazioni si concretizzano nelle forme più disparate e complesse. Il castoro, si potrebbe sostenere, manca totalmente del progetto, mentre un essere umano è progettista, artefice cosciente e non istintuale, della propria casa. È questione genetica: un castoro è mero esecutore di qualcosa che si è morfologicamente evoluto con lui stesso. L’essere umano al contrario decide, pianifica, sceglie libero dalla propria evoluzione.

Secondo questa prospettiva l’animale non umano sarebbe continuamente immerso nel suo Umwelt, un mondo costituito unicamente dalle attività specifiche dell’essere animale (Von Uexküll) in cui l’animale non può guardare agli oggetti in quanto tali ma solo per ciò che essi rappresentano all’interno dell’ambiente in cui è presente. L’essere umano al contrario, attraverso la sua capacità di astrarre la propria coscienza dalle semplici necessità vitali, sarebbe in grado di costruire il proprio Umwelt proprio in funzione del suo potenziale creativo:

“Gli esseri umani non costruiscono il mondo in un certo modo in virtù di ciò che sono, ma in virtù delle concezioni delle loro possibilità. E queste possibilità sono solo limitate dal potere dell’immaginazione.” (T. Ingold, 2004)

Per gli esseri umani quindi, secondo questa prospettiva, la “rete di significati” che connette le esperienze soggettive sarebbe inscritta in un piano separato di rappresentazioni mentali che avvolge e ricopre l’ambiente. Gli usi potenziali degli oggetti che ci circondano sono possibili solo in quanto l’essere umano è in grado di assegnarli liberamente attraverso una scelta di coscienza e progettualità.

Fino a qui parrebbe tutto estremamente logico e lineare. In quanto animali umani la differenza dai nostri “compagni” non umani sembra un dato scontato. Questa prospettiva affonda le sue radici all’interno di un solco profondo e fortemente incorporato alla stessa cultura occidentale. Ciò che ci caratterizzerebbe in quanto specie “unica” al mondo è la capacità di mantenere separate le cose: mente vs corpo, natura vs cultura. L’uno non può essere l’altro e i piani devono necessariamente mantenersi separati. Pena la produzione di forme “ibride”, “meticciate” difficili da collocare, comprendere, controllare.

Per quanto riguarda l’abitare, l’essenza di una tale prospettiva (che ricordiamo essere stata successivamente criticata dallo stesso autore) è che: «i mondi sono già fatti prima che noi ci viviamo dentro, o in altre parole, che gli atti di abitazione sono sempre preceduti da atti di costruzione (…) Gli esseri umani perciò abitano le varie case della cultura, prefabbricate su un terreno naturale universale» (Ingold, 2004, pag. 121-122). Prima la mente assegna, coopta, distribuisce funzioni, plasma la natura attraverso la cultura, solo in un secondo momento l’abitare è possibile.

Prendiamo l’esempio, riportato anche da Ingold nel confutare la teoria della storia abitativa di Peter Wilson[2], il quale poneva come punto di svolta essenziale nell’abitare l’inizio della pratica umana di vivere in case costruite. La differenza tra le popolazioni di cacciatori-raccoglitori e le altre società starebbe per Wilson nel fatto che nel caso dei primi è solo una piccola linea sottile a dividere le loro abitazioni dalla natura. I secondi al contrario, abitano uno spazio “modificato architettonicamente” in cui la natura è trasformata in maniera durevole. È la conformazione dei differenti nuclei abitativi, secondo Wilson, a suggerirci che nel caso dei cacciatori-raccoglitori costruire semplici ripari si ponga al pari delle altre attività vitali. Ciò significa che queste popolazioni vivono un ambiente naturale, e quindi non modificato artificialmente. Al contrario nel caso dei villaggi il costruire trasforma l’ambiente naturale e gli abitanti popolano quindi uno spazio “culturale” strappato alla natura attraverso l’architettura.

 

Fig. 1 Campo pigmeo di Mbuti di Apa Lelo – Fonte-: Turnbull, 1955

Fig. 2 Sito mesopotamico di Tel es-Sawwan – Fonte: Maisels, 1990

 

Entrambe le popolazioni sono accomunate poi dal fatto che vivono un ambiente già dato che funge da semplice contenitore del loro abitare. «Questa è la prospettiva dell’architetto: prima costruire le case poi metterci dentro le persone che le abiteranno».

Cosa allora potremmo pensare rispetto alle popolazioni nomadi di pastori e allevatori contemporanee? Tende, capanne, ripari, belle ville in calcestruzzo, bidonville, case popolari della periferia: è davvero il supporre una minore o maggiore vicinanza alla “natura” insieme alla qualità e stabilità della architettura che compone l’abitazione il segno dell’abitare? Dovremmo supporre da ciò che l’abitare di alcuni differisce per grado e qualità dall’abitare differisce dall’abitare dei castori e per altri al contrario abitare fa parte delle semplici attività di natura?

Quello della “prima capanna” è in un certo senso un mito, una narrazione prodotta dalla separazione, tutta storica e culturale, tra ciò che identifichiamo e mettiamo da parte come natura e ciò che invece è cultura. La ricerca dell’origine dell’abitare appare così viziato dalla necessità di individuare un momento storico in cui si passa dalla tana del castoro alla capanna di sterpi e così via correndo lungo una linea evolutiva che arriva fino ai giorni nostri e fortemente radicata nella nostra ansia culturale del dividere e separare ciò che è cultura e ciò che invece non lo è e non può esserlo, in quanto troppo primitivo, troppo naturale. È in questo continuo separare e dividere per cassetti che, secondo la prospettiva fin qui ripercorsa, l’abitare è possibile solo dopo aver costruito. Senza costruire, non c’è abitare. Senza progetto, non c’è architettura e quindi nessun ambiente costruito, ma solo natura. Ma è davvero necessario operare queste separazioni? Ricordiamo che è proprio grazie a questa operazione di dicotomizzazione che la casa può trasformarsi in semplice oggetto, commodity, contenitore.

Il filosofo Martin Heidegger propose a suo tempo una chiave di lettura in grado finalmente rompere questa dicotomia. Partendo dall’etimologia della parola tedesca bauen, costruire nella lingua germanica, scopriamo che essa deriva dall’antico inglese ed alto tedesco buan che sta per abitare. Inoltre questo antico termine non rimanda unicamente alla specifica attività della dimensione domestica bensì ne allarga i confini all’intera maniera di stare sulla terra (io abito = io sono).

Bauen inoltre contiene un secondo significato connesso questa volta al senso di prendersi cura e, nello specifico, coltivare la terra. Ecco quindi che il costruire (e il coltivare) non possono più considerarsi come attività separate o precedenti l’abitare. Al contrario vi si radicano e appartengono intimamente al nostro modo di abitare il mondo. Solo che questo lo abbiamo dimenticato: separando natura/cultura, costruire/abitare, abbiamo dimenticato che queste dimensioni coesistono inseparabili. Ambiente e esseri umani sono elementi indissolubili, proprio come il castoro e la sua tana. Il progetto e quindi il pensiero non vengono prima del mondo, essi abitano il mondo ed esso per gli esseri umani è «patria dei loro pensieri» (Merleau- Ponty 1945).

Ecco quindi che da una “prospettiva del costruire”, anche Ingold arriva a confrontarsi con un nuovo sguardo, una “prospettiva dell’abitare” che riconduca esseri umani e ambiente all’interno del medesimo dominio, superando quindi la frattura storicamente prodotta tra ciò che sta in un cassetto e ciò che troviamo nell’altro.

In conclusione vorrei tornare ora al saggio di Jakob Von Ueküll, dal quale eravamo partiti assieme a Ingold. Verso la fine del suo lavoro il biologo estone ci lascia con un’immagine estremamente accattivante e che ci porta a chiudere il cerchio di questo capitolo.

Immaginiamo, ci chiede lo scienziato, una quercia. Un maestoso albero in cui se si è fortunati è possibile incontrare molteplici abitanti. La volpe ad esempio, che ha costruito la sua tana tra le radici, oppure la civetta che dell’albero abita la sommità, nascosta tra le fronde. C’è poi lo scoiattolo per il quale la nostra quercia non solo è casa ma anche strada verso il cibo. Ci sono le formiche laboriose e avide dei nutrimenti che l’albero nasconde tra i solchi della sua corteccia. Infine potremmo immaginare uno scarafaggio che trova riparo per le sue uova. I possibili abitanti di un sì maestoso albero sono infiniti e ognuno di essi ne fa il suo Umwelt personale. Lo stesso vale anche per il bambino che alla quercia ha appeso la sua altalena, e per il giardiniere che deve prendersi cura della pianta.

Ma l’albero, potremmo concludere, non è una costruzione. Così come non appartiene al dominio dell’architettura, non fa parte della cultura ma semplicemente è lì e da lì non si muove. La casa che sta poco distante (vi chiedo di immaginarla), quella sì che è una costruzione: natura trasformata dall’azione e dal pensiero umano e che esiste solo in quanto tale (Godelier, 1984). Ad un secondo sguardo però, rinunciando a quella “prospettiva del costruire” che ci porta a separare, la forma dell’albero non può dirsi in maniera così scontata un semplice fatto immutabile di natura, così analogamente la casa non può dirsi un semplice esercizio del progetto della mente umana. Gli abitanti della quercia, in quanto abitano, hanno tutti una loro parte attiva nel divenire del nostro albero, nel plasmare la sua forma.

Anche la casa, ci dice Ingold in chiusura, si popola di molteplici abitanti, umani e non umani, i quali partecipano continuamente alla trasformazione delle sue forme. La differenza sta nel grado di coinvolgimento ma tutti abitano e modificano in continuazione il proprio ambiente ed il costruire non è quindi limitato a un progetto preesistente, continua nel tempo confluendo nell’abitare al quale è indissolubilmente legato. L’abitare è un costruire ed entrambi avvengono in un ambiente, indipendentemente dalla qualità e dai materiali della costruzione, perché l’abitare è una pratica attiva che definisce la stessa esistenza umana in una relazione di interdipendenza con la natura. Ovunque è così: una capanna, una baracca, un riparo improvvisato sotto un ponte, un grattacielo o un felice condominio di cemento armato. Che ci piaccia o no, non siamo poi così tanto diversi dai castori quando si tratta di abitare.

Giacomo Rogora – 16.3.2020

Gli articoli precedenti di Segni tra il Cemento: https://consumietici.it/2020/02/25/1-segni-tra-il-cemento-riflessioni-sullabitare/

 

 

 

[1] Abitare o costruire: come uomini e animali fanno del mondo la propria casa in T.Ingold, Ecologia della Cultura, 2001, Meltemi editori, pag. 111

[2] P. Wilson, The domestication of human species, Yale University press, 2004, orig. 1998

Fonti fotografiche (dove non citate)
– www.vitantica.net%2f2018%2f07%2f16%2fcaratteristiche-societa-cacciatori-raccoglitori%2f/RK=2/RS=1cNfnICJPPCqLIow.h.HJvogg1Q-

– www.simbolisulweb.it%2fanimali%2fsimbolo-castoro-significato%2f/RK=2/RS=9kqiIJi7ViRHUieyLhHip0l_EJU-

– https%3a%2f%2fscandianolanostraterra.wordpress.com%2f2010%2f12%2f19%2fda-rondinara-alla-grande-quercia%2f/RK=2/RS=IlB_GS8P1a5fzxCwIIlMEWZQaiY-

 

 

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