Oggi 27 gennaio si celebra la Giornata della Memoria per non dimenticare le vittime dell’Olocausto, il genocidio degli ebrei ad opera dei nazisti (e non solo) durante la seconda guerra mondiale. In realtà sarebbe più giusto parlare di Shoah, parola di origine ebraica, perché il termine Olocausto, di derivazione religiosa, sottintende un sacrificio divino, un affronto perciò nei confronti di chi ha perso la vita in seguito ad un freddo e cinico calcolo, effettuato proprio con l’intento di realizzare uno sterminio di massa. In tutto il mondo si organizzano quindi eventi, manifestazioni e, all’interno di istituzioni come le scuole, si discute dell’argomento attraverso letture, filmati e tanto altro.
Belle proposte. Solo che a volte gli studenti tendono a banalizzare certe iniziative, uscendosene con un «Oh no, ancora gli ebrei..», risposta che dà da pensare. Si può dire che non occorre necessariamente sensibilizzare i giovani attraverso film e documentari “pesanti” e dal forte impatto emotivo, spesso visti solo come una forma per saltare le lezioni e quindi perdere tempo, reazione che da un certo punto di vista ci si può aspettare. Bisogna quindi capire il target a cui si indirizzano tali pellicole, in modo da non sminuire la bellezza di alcune opere, come Schindler’s List (1993) diretto da Steven Spielberg, che porta sullo schermo la figura di Oskar Schindler, personaggio che si è ribellato alla legge nazista, cercando di salvar quanti più ebrei possibile, facendoli lavorare nella sua fabbrica di oggetti smaltati. Esistono anche i filmati originali girati dagli americani e dai russi, una volta entrati nei campi di concentramento e scoperto i crimini commessi dai nazisti. Le immagini crude di certi girati potrebbero dare fastidio ad un pubblico più sensibile, tanto più un bambino. Questo non significa comunque che vadano eliminati o che non si debba più parlarne, solo perché è storia passata e superata (forse).
Per evitare di cadere nel baratro della ripetitività e annoiare il pubblico più giovane, minimizzando così l’importanza di tale ricorrenza, può essere uno spunto interessante proporre la lettura di Maus di Art Spiegelman, un racconto in forma di fumetto sulla vita del padre dell’artista, in particolare sulla sua esperienza all’interno dei campi di concentramento. Questo perché Se questo è un uomo (1947) di Primo Levi, forse, non sempre si addice ad un pubblico che si approccia alla lettura di una vicenda drammatica di tale portata.
Il fumetto è diviso in due sezioni, pubblicate separatamente e poi raccolte in un unico volume. La prima parte (1986) narra la vita spensierata del giovane Vladek, di nazionalità polacca: i rapporti umani, il lavoro, il matrimonio con Anja; un corso destinato a cambiare repentinamente con l’avvento del nazismo, che porta a un progressivo impoverimento delle condizioni sociali degli ebrei polacchi, costretti prima a far fronte alla mancanza di cibo, dando anche origine a un traffico clandestino di beni di prima necessità, e dopo a nascondersi e fuggire dai rastrellamenti nazisti. La seconda parte (1991) è incentrata sulla vita dei deportati ad Auschwitz, quindi sulla vita di Vladek, catturato insieme alla moglie dopo aver cercato di espatriare ed essere stato tradito da alcuni uomini, e del suo altruismo, mostratosi nell’atto di aiutare gli altri internati a sopravvivere, soprattutto Anja, più volte soggetta a fragilità emotiva e fisica, ma che riuscirà comunque a uscirne viva grazie al marito (tuttavia soffrirà di depressione che la porterà al suicidio sul finire degli anni Sessanta). Nei lager viene fuori la vera natura umana: pur di sopravvivere c’è chi asseconda il nemico, comportandosi allo stesso modo, e chi riesce a mantenere integra la sua dignità e umanità, nonostante sia sottoposto a un opprimente processo di spoliazione di qualsiasi diritto e libertà naturali (si veda la toccante scena del povero Mandelbaum).
Nel libro è il protagonista della vicenda a raccontare al fumettista, nonché figlio, la sua storia, alternando così l’orrore della Shoah al presente, in cui emerge il rapporto problematico tra un padre dal carattere difficile, in parte dovuto all’età, in parte legato al trauma della deportazione prima e di aver perso la moglie dopo, e un figlio, apparentemente indifferente. Art Spiegelman, infatti, si renderà conto del suo disagio nei confronti di un genitore superstite allo sterminio nazista, un padre con le sue manie, ma comunque buono. L’autore fa così un’analisi personale tra il padre uscito provato dai campi di concentramento e poi emigrato negli Stati Uniti per ricominciare a vivere e se stesso, nato negli anni della crescita economica e che non ha quindi vissuto la guerra, ma che in parte sente il peso della memoria, non senza qualche senso di colpa.
Vincitore dello Special Award del Premio Pulitzer, Maus ebbe un grande successo, nonostante l’autore stesso abbia parlato di difficoltà nel realizzare un’opera del genere, cercando di rispettare e rendere onore il più possibile alle vittime del genocidio nazista. L’aspetto più interessante, che ha colpito maggiormente la critica, è stato sicuramente la scelta di utilizzare la forma “semplice” del fumetto, quindi raccontare la storia attraverso le immagini disegnate, utilizzando la metafora come espediente principale. I personaggi vengono così rappresentati con le sembianze di animali: gli ebrei sono raffigurati come topi (da cui il titolo dell’opera), i nazisti come gatti, gli americani come cani, ecc.
È giusto sapere che non furono soltanto gli ebrei ad essere deportati e uccisi, ma anche prigionieri politici, criminali, “asociali” (persone affette da problemi mentali, senzatetto e via dicendo), emigranti, omosessuali, comunità religiose o etniche “diverse” e così via. Situazioni simili si sono sempre verificate e ancora oggi c’è il rischio. Spesso le persone si chiedono come si stato possibile che si realizzasse una situazione del genere. A tal proposito nel 1967 fu condotto un esperimento sociale, denominato La Terza Onda, per dimostrare come fosse possibile manipolare le menti delle persone. Protagonista dell’esperimento, una classe di liceali e il suo professore di storia, nonché leader, il quale assunse un comportamento volutamente autoritario, esigendo una ferrea disciplina e istituendo una serie di leggi rigorosamente da rispettare (tra cui il saluto simile a quello nazista). Il risultato fu che i giovani coinvolti migliorarono il loro rendimento scolastico, in quanto fortemente motivati dalla loro guida e dal senso di appartenenza ad un gruppo con obiettivi comuni, arrivando però sempre di più a discriminare chi non facesse parte dello stesso gruppo, chi dei membri non rispettasse la legge, ecc. Il professore fu costretto a cessare l’esperimento, perché ne stava perdendo il controllo: si stavano manifestando le stesse caratteristiche che avevano preso piede nella Germania degli anni ’30.
Il 27 gennaio è doveroso ricordare le vittime della Shoah: persone da una vita normale e quieta, come Vladek Spiegelman, stravolta improvvisamente dall’inaspettato e dall’inimmaginabile, lasciando a quei pochi sopravvissuti conseguenze psico-fisiche insuperabili.