I vicoli della Kasbah di Marrakech risuonano come un’antica Babele, le pietre millenarie fanno da eco a una miriade di lingue diverse che i turisti di tutto il mondo propagano tra le stoffe colorate, le spezie e i bambini che corrono inseguendo un gatto o in sella a una bicicletta.
I segni del terremoto che la notte dell’otto settembre ha colpito la regione di Marrakech – Safi sono ancora tangibili nel capoluogo, e i turisti si fermano a fotografare i palazzi sventrati, dopo aver scattato selfie al Bahia Palace o nella piazza Jemaa el-Fnaa.

Quasi come se le macerie accatastate negli angoli dei vicoli fossero un pezzo dell’antica storia millenaria del Regno del Marocco.
Eppure, quelle cicatrici, sono il segno presente di un dramma che a pochi chilometri di distanza vede delle ferite ancora aperte, a cui al momento non sembra esserci una cura.

Samir ci accoglie nella piazza centrale di Asni, un villaggio non lontano dall’epicentro del terremoto ai piedi della catena montuosa dell’Alto Atlante, di cui ci indica il picco più alto, il Jbel Toubkal che con i suoi 4167 metri è la montagna più alta di tutto il Nord Africa.
Samir ci accoglie e con le sue parole trasmette amore e orgoglio per quella terra, per quelle montagne che conosce bene, e dopo pochi passi spediti ci rendiamo conto che il suo lavoro come guida alpina gli si addice perfettamente. Scarpe da ginnastica, passo rapido e deciso che si allontana dalla strada asfaltata che conduce in un’ora di macchina a Marrakech, per attraversare un ponte e immettersi su una strada sterrata che fa aumentare l’altitudine. Samir saluti tutti, ogni incontro sulla strada è accompagnato da sorrisi, strette di mano, pacche sulle spalle e scambi di pace. “Qua mi conoscono tutti perché sono l’allenatore della squadra di calcio, tra poco cominciano gli allenamenti e i ragazzi stanno già correndo al campo” ci spiega in un perfetto inglese. Guida turistica, allenatore della squadra locale ma anche tanto altro, Samir e i suoi amici dopo la notte dell’otto settembre si sono attivati per aiutare il loro villaggio e sono diventati un punto di riferimento per l’intera comunità. Distribuzione di cibo e beni di prima necessità, educazione informale per i più giovani attraverso lo sport, allestimento di un centro di aiuti e tanto altro. Nell’ora più buia la comunità si riscopre, diventa unita, si aiuta


Ci addentriamo per le ripide strade di Asselda, un villaggio dove il tempo si è fermato a quella notte. Le case sono distrutte, il terreno è dissestato, le macerie ostacolano in più punti il cammino. Le tende dove gli abitanti del villaggio vivono sembrano rappresentare uno di quei campi base alpinistici che Samir deve conoscere bene, ma questa volta il campo non è temporaneo e le tende non si levano al mattino per raggiungere la vetta: l’intera popolazione vive in una situazione di estrema precarietà di cui non si vede una via d’uscita. “Non sappiamo cosa aspettarci dal futuro. Gli aiuti si sono concentrati su Marrakech dove in poco tempo la situazione è tornata alla normalità mentre nei villaggi qui intorno ci sentiamo dimenticati. Sono arrivate in donazione alcune tende ma la maggior parte delle persone si è dovuta arrangiare con i propri mezzi”.
Un intero villaggio costretto a costruire delle tende di fortuna formando un campo profughi nel proprio stesso villaggio, talvolta a poche decine di metri dalla propria casa, ancora distrutta o resa inaccessibile dal terremoto.

Ci servono delle case.” questa è l’unica necessità al momento, “tra poche settimane inizierà a nevicare, chi ha potuto ha abbandonato il villaggio ed è andato a Marrakech ma per chi rimane l’inverno sarà difficile: oltre alle temperature proibitive il peso della neve potrebbe far crollare gli edifici che sono già pericolanti”.

Nella tenda di Samir il caldo è garantito dal carbone che scalda il couscous, sua madre ci accoglie con un piatto caldo e un thè che riscaldano più il cuore del corpo, poi ci mostra un forno costruito fuori dalla tenda dove con la legna si cucina il pane. Intorno al forno siedono un gruppo di donne, adulte e bambine che chiacchierano baciate dalla luce del tramonto. Samir ci introduce, ci salutano con la mano sul cuore, una bambina nasconde il viso dietro il vestito lungo della madre, poi scoppiano a ridere. “Non ridiamo di voi” ci traduce Samir, “Ridiamo perché siamo felici”.

Il sole che si avvicina alle montagne più alte meriterebbe di essere osservato e goduto mentre regala  uno spettacolo di luce mozzafiato ma non c’è tempo, Samir vuole che arriviamo prima della fine degli allenamenti allo stadio, e bisogna fare in fretta. Ci fa sorridere che chiami stadio quello che ci aspettiamo essere un campetto sconnesso ritagliato tra gli alberi della montagna ma a vederlo dall’alto di una collina ci rendiamo conto che il nome di stadio se lo è guadagnato con tutto il rispetto. Incastonato sul versante di una montagna, coperto di polvere rossa e livellato alla perfezione, ospita una cinquantina di ragazzi che dai 7 ai 17 anni pratica un allenamento, diviso in tre diversi gruppi. E’ la squadra “Generation Asselda” con tre diverse categorie in base all’età e seguito da tre differenti allenatori. La polvere si alza sotto le scarpe dei ragazzi che indossano le maglie dei loro idoli, Messi, Ronaldo, Griezmann, ma sono numerose le maglie rosse con la banda orizzontale verde che hanno indossato i Leoni dell’Atlante nell’ultima edizione dei mondiali, ottenendo il miglior risultato di sempre di una nazionale africana nella Coppa del Mondo di calcio.

Samir ci presenta alla squadra con un discorso al termine degli allenamenti, poi ci spiega che il calcio è un pretesto per insegnare ai ragazzi l’educazione, il rispetto e i valori come il gioco di squadra e la cura verso la propria comunità.

Il calare del sole introduce il freddo della sera che costringe tutti a rientrare nelle proprie tende. Dal versante della montagna nella quale è scavato il campo sorge una luna piena che illumina il cielo notturno. Fa luce sulle difficoltà di tutta la zona, sulle contraddizioni di un Paese che ha concentrato i suoi sforzi per pulire la facciata, la grande città, l’approdo dei turisti da salvaguardare ma che lascia senza prospettive intere comunità a solo pochi chilometri di distanza. Fa luce sull’importanza della solidarietà internazionale, del mutuo aiuto, della possibilità di tendere la mano, o di passare la palla, a chi ne ha più bisogno al momento. Illumina le nostre potenzialità, la capacità di mettersi al servizio, di collaborare, di schierarsi fianco a fianco quando c’è bisogno di sporcarsi le mani. Sembra un grosso pallone opaco che fluttua nella volta celeste, mentre a terra, un altro tipo di pallone, illumina con la speranza un gruppo di ragazzini che rientra nelle proprie tende col sorriso sulle labbra.


Gian Marco Duina
28/11/2023

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