Il numero sulla schiena di un calciatore è sempre stato molto più di un semplice numero.
Inizialmente strettamente legato alla frazione di campo calpestata e al ruolo occupato nella tattica della squadra, da quando la numerazione 1-11 per i titolari non è stata più obbligatoria, il numero sulla schiena ha assunto un significato simbolico per il giocatore e, talvolta, per l’intera società.
In principio fu l’1 per il portiere, e ciò rimane ancora oggi quanto meno nel fatto che, seppur i portieri sempre più spesso utilizzino numerazioni varie, sono rarissimi i casi di giocatori di movimento con indosso la maglia numero 1. Ma nell’immaginario collettivo il 10 sarà sempre il bomber (Maradona e Pelè), il 7 l’esterno (Cristiano Ronaldo e Luis Figo), l’8 il regista (Iniesta e Rijkaard).
Un archetipo calcistico, che però in alcuni casi viene snaturato dal suo concetto identitario collettivo e assume un significato singolare, individuale, personale che il calciatore decide di affiggere sulla sua corazza.
Scelte personali come il 17 di Immobile o il 24 di Insigne, giorno di nascita delle rispettive mogli; scelte di rimedio come l’iconico 1+8 di Zamorano per il 9 già impegnato sulle spalle di Ronaldo; scelte religiose come il 33 di Legrottaglie; scelte ironiche come il 5 di Sensi, il 7 di Nani o il 44 di Gatti; oppure scelte politiche come il 74 di Mohamed Salah con la maglia della Fiorentina: un omaggio alle vittime della strage di Port Said, un massacro che i tifosi della squadra cairota dell’Al-Ahly subirono come forma di repressione per le loro posizioni assunte durante la Primavera Araba in Egitto.
Ci sono poi alcuni numeri che sono stati definitivamente ritirati per scelta della società: il 13 della Fiorentina e del Cagliari non saranno più indossate da alcun giocatore dopo la scomparsa di Davide Astori; a Milano il numero 3 è stato ritirato in memoria di Franco Baresi su sponda rossonera e di Giacinto Facchetti su sponda neroazzurra; a Napoli e Brescia la numero 10 rimarrà per sempre sulle spalle di Diego Armando Maradona e Roberto Baggio; a Roma, sponda Lazio, la maglia numero 12 appartiene solo alla tifoseria, appunto, il dodicesimo uomo in campo.
Per la prima volta, però, una maglia verrà esclusa da tutte le squadre senza l’intervento delle società: è stato sottoscritto un provvedimento al Viminale che vieta l’utilizzo della maglia numero 88 sui campi da calcio della Serie A. All’interno della dichiarazione di intenti per la lotta contro l’antisemitismo, infatti, come ha dichiarato lo stesso ministro Piantedosi, “c’è quindi il divieto dell’uso […] di simboli che possano richiamare il nazismo.” Ecco perché, il numero 8, richiamando l’ottava lettera dell’alfabeto, l’H, non potrà essere accostato ad un altro 8 che avrebbe altresì richiamato la sigla “HH”, Heil Hitler, usata di sovente dalle tifoserie neonaziste per inneggiare al Fuhrer.
Dovrà cambiare maglia Mario Pasalic, centrocampista croato in forza all’Atalanta, che dal 2018 con l’88 sulla schiena ha collezionato oltre 150 presenze, così come il laziale Toma Basic che, aspirando ad indossare la numero 8 già assegnata, dovette ripiegare sul doppio 8, stratagemma già utilizzato in passato dal laziale Hernanes mentre per l’interista Biabiany 88 era semplicemente l’anno di nascita.
La notizia ha suscitato una reazione che ha valicato i confini nazionali. “Naturalmente il numero 88 è utilizzato dalle sottoculture neonaziste, ma non significa che il riferimento sia sempre voluto” ha dichiarato Rafal Pankowski, dell’associazione “Never Again” che in Polonia si batte per l’eradicazione di qualunque forma di discriminazione nel mondo dello sport “ L’antisemitismo è molto presente nelle curve di estrema destra anche qui in Polonia, e non può essere sradicato semplicemente sbarazzandosi di un numero sulle magliette, non è sufficiente.”
Dall’Italia alla Polonia, il filo rosso dell’estrema destra si muove tra le curve anche delle principali città. In Italia gli episodi di antisemitismo si registrano regolarmente non tanto nei confronti diretti dei calciatori, come succede invece con il razzismo, ma nell’utilizzo di riferimenti legati alle vittime delle shoah o dell’appellativo “ebreo” usato in chiave dispregiativa. Dai “Rossoneri Ebrei” intonato dalla Curva Nord agli adesivi “Romanista Anna Frank” diffusi dagli ultras della Lazio: il virus antisemita dilaga.
“C’è bisogno di un approccio più diretto che parta dall’educazione, dalla storia e dalla conoscenza della minaccia contemporanea dell’estrema destra nelle nostre società”. Un processo lungo, dunque, che tenti di risolvere il problema su un ampio raggio di tempo, non immediato. Il problema, infatti, non è certamente di stampo recente. L’antisemitismo negli stadi è diffuso purtroppo da molti decenni ma particolare attenzione ebbe proprio l’utilizzo della maglia 88 da parte di un portiere controverso, nella stagione 2000/01, e destinato a cambiare la storia del calcio italiano: Gianluigi Buffon.
Già allora il responsabile sport della comunità ebraica di Roma intervenne per chiedere motivazioni sulla scelta del giovane portiere ma la domanda venne dribblata con doti da centravanti. Una risposta sommaria è arrivata oggi, invece, dal ministro degli Interni Matteo Piantedosi, dal ministro dello sport Andrea Abodi e dal coordinatore nazionale per la lotta contro l’antisemitismo Giuseppe Pecoraro.
Conclude Pankowski: “L’antisemitismo non è certo stato inventato negli stadi, ma il calcio può giocare un ruolo importante per combatterlo!”.
Gian Marco Duina
27/06/2023