22 novembre 2018 – Convegno e mostra fotografica “Carla Cerati. Il ’68 e Morire di classeintervento di Giovanna Gammarota

Ho incontrato per la prima volta Carla Cerati nel 2013 in occasione della mostra antologica a lei dedicata, curata da Sandro Parmiggiani a Reggio Emilia nell’ambito del Festival di Fotografia Europea. Da tempo desideravo conoscerla, anni addietro avevo letto alcuni suoi romanzi, all’epoca non sapevo che fosse anche fotografa. Un’amica mi consigliò di leggere un suo libro, “La cattiva figlia”, pensando che potesse interessarmi poiché la mia storia personale aveva in qualche modo delle affinità con la storia narrata in quel romanzo. Naturalmente me ne innamorai e volli leggere anche gli altri.

Questo accadeva all’inizio degli anni Ottanta. Quando poi nei primi anni Novanta scoprii la fotografia e cominciai a praticarla mi capitò di sottoporre alcune mie immagini a Elena Ceratti che all’epoca lavorava presso l’agenzia Grazia Neri, il suo nome mi condusse a un’altra mia conoscenza di allora: Federico Ceratti, che avevo incontrato sempre attraverso l’amica che mi consigliò il libro di Carla. In quell’occasione chiesi ad Elena se per caso fosse parente di Federico e lei sorridendomi mi rispose: Certo! È mio fratello. A quel punto il cerchio era quasi completo: di Roberto Cerati sapevo perché provenivo dal mondo dell’editoria, Federico ed Elena li avevo conosciuti, mi mancava soltanto lei: Carla Cerati.

Scoprire che Carla era sia fotografa sia scrittrice nel momento in cui mi accingevo a spostare il mio interesse dalla scrittura alla fotografia, me la rese immediatamente interessante a prescindere. Ma dovevano passare ancora molti anni prima che potessi incontrarla personalmente.

Come ho detto l’occasione fu la mostra di Reggio Emilia, «Guardare la metamorfosi», lì potei osservare per la prima volta un corpus di 140 immagini nella condizione privilegiata di accompagnatore dell’autore. Fu un’esperienza indimenticabile! Questa piccola donna apparentemente fragile fisicamente, da molti – scoprii in seguito – ritenuta spigolosa, ai miei occhi si mostrava gentile e ancora molto ironica nonostante l’età, o forse proprio per quello.

 Metamorfosi è un termine che evidentemente era molto caro a Carla e guardare la metamorfosi mi appare ora come la giusta definizione di ciò che è stata la sua esistenza con un valore in più: Carla non osservava semplicemente le trasformazioni che accadevano attorno a lei, queste trasformazioni, o metamorfosi appunto, avvenivano contemporaneamente anche in lei, nella sua percezione del come si dovesse vivere.

All’inizio degli anni Cinquanta la vita di Carla Cerati è già molto ben definita. A poco meno di trent’anni è sposata e ha due bambini – non inusuale per una donna nata nel 1926 – eppure quella che sembra essere una sorte già tracciata è destinata invece ad essere completamente stravolta. Per anni si occupa esclusivamente della famiglia. Tuttavia, dopo il trasferimento a Milano, nasce la necessità di un ulteriore supporto economico al lavoro svolto dal marito. Così Carla, donna dalla manualità molto spiccata, diventa una sarta, un’ottima sarta. Tutto questo però non collima con quello che già nell’arte sartoriale emerge: il desiderio di creare qualcosa.

Carla Cerati comincia a fotografare perché le è sempre piaciuto, da giovane disegnava, e pensa che la fotografia con la sua immediatezza, possa essere un buon sostituto del disegno. Fotografa i suoi bambini, le sue amiche poi capisce che sta cercando qualcos’altro, che il suo mondo non è lì e quindi, afferra la macchina fotografica e decide di uscire di casa. Questo gesto diviene un gesto di passaggio dal passato, del quale aveva già cominciato ad occuparsi attraverso la scrittura, al presente.

L’immagine fotografica è simbolo di modernità, di immediatezza, si dice che fermi l’attimo. Cosa c’è là fuori? Come posso raccontarlo? La scrittura non è adeguata e infatti Carla Cerati dirà in parecchie occasioni che la scrittura per lei rappresenta il suo passato mentre la fotografia il suo presente. La curiosità di conoscere e separare il mondo fuori dalla porta di casa, metafora del “suo fuori”, dall’interno della casa, luogo protetto che coincide con la famiglia e metafora il “suo mondo interiore”, avviene mediante un linguaggio simbolicamente di rottura: la fotografia.

Carla rompe lo schema riflessivo dell’ambientazione letteraria affidandosi con fiducia all’istinto, elemento base dell’azione fotografica. Questi due sentimenti, nettamente contrastanti, faranno di lei un’autrice inclassificabile, che sfugge alle maglie della catalogazione.

In un’intervista che le feci nel 2013, l’ultima da lei rilasciata, questo tema della metamorfosi appare in modo molto netto. Il suo rapporto vero con la fotografia e il suo agire da occhio che registra la metamorfosi nasce con l’osservazione di Milano, sua città di adozione e soggetto prediletto.

Nonostante Carla Cerati abbia fotografato molti luoghi, la relazione che si stabilisce tra lei e Milano ha un sapore di reciproco accoglimento. Milano si fa carico di donare la libertà intellettuale e personale a una donna che caparbiamente vuole capire chi è e cosa significhi il mondo attorno a lei – un mondo che sta nelle strade della città, nei suoi locali, nei luoghi di cultura, nelle aule di tribunale – e Carla Cerati accoglie Milano: dinamica, feroce e interessantissima.

All’inizio, sembrava una tranquilla città di provincia. – mi racconta – A poco a poco cominciò un periodo di grande fervore edilizio, c’erano molti cantieri, crescevano palazzi, e io fotografavo questa trasformazione strabiliante. Cominciarono a uscire miei servizi sulla “Milano di sopra e di sotto”. Fotografavo questi palazzi dall’alto, arrampicandomi, e poi i primi scavi per la metropolitana: la trasformazione di una città che forse io vedevo con occhi diversi.

“La trasformazione che forse io vedevo con occhi diversi” ecco, questa frase è un preciso riferimento, a mio avviso, alla relazione che si stabilì tra la fotografa e la città. Perché Carla dice questo? Perché in lei è in atto la medesima trasformazione e dunque Carla è la città e la città è Carla, sono interscambiabili, sono lo stesso corpo. Crescono e si trasformano nel medesimo istante.

Milano cambia e questo cambiamento fa diventare la città il centro propulsivo delle avanguardie culturali, della lotta politica, dell’affermazione dei diritti delle donne in un Paese che senza accorgersene già assapora i primi morsi della restaurazione.

Questa sorta di simbiosi tra la fotografa e la città procede passando attraverso sconvolgimenti sociali che per noi oggi sono storia celebrata nei musei come il movimento del ’68, mutuato dal vissuto del figlio Federico, le lotte studentesche, quelle degli operai, il femminismo:

Il Sessantotto, – dice Carla Cerati – i primi anni Settanta, il movimento Settantasette, sono periodi storici che hanno cambiato il volto della città, il modo di pensare, il modo di muoversi. Per esempio a me sembrava normale, parlando al telefono, ironizzare dicendo: “stiamo attenti perché stanno registrando”. C’era infatti l’idea che se qualcuno si dava da fare politicamente potesse essere segnalato, e quindi per noi era normale pensare che magari stessero registrando la conversazione.

Fino a quando cominciano ad arrivare i primi segnali di squilibrio il 12 dicembre 1969:

 Il primo segnale forte è stata la bomba alla Banca dell’Agricoltura. Le accuse a Valpreda, tutta quella macchinazione che è seguita ancora da chiarire completamente. È stato come se fossi dentro questo vortice, tutti noi lo eravamo. È stato come una campana funebre, la chiusura di un periodo, una cosa grossa.

Il rapporto che ha unito la fotografa alla città per oltre dieci anni durante i quali Carla enfaticamente ricorda

mostre straordinarie organizzate da Gianni Sassi, alle quali partecipavano artisti da tutto il mondo: impazzivo perché avrei voluto girarmi da tutte le parti. Erano tutti troppo interessanti

quel fervore culturale che la induceva a buttarsi fuori di casa (fuori da sé) andando alle presentazioni di tutte le novità letterarie che avvenivano presso la libreria Einaudi dove si radunavano contemporaneamente scrittori come Volponi, Sciascia, Lalla Romano, Vittorini

 “Io andavo per fotografare Vittorini in realtà, ero incantata dal suo volto”

quella relazione così straordinaria che la portava al cinema a vedere La notte di Antonioni in cui si manifestava la realtà vera di Milano negli anni del boom economico, cominciò a spezzarsi quando il potere come una tigre ferita rimasta rintanata troppo a lungo, uscì allo scoperto per riprendersi la scena lasciando i cadaveri sul selciato.

Prima la Banca dell’Agricoltura, come abbiamo ricordato, poi le infiltrazioni della lotta armata:

“Ho fotografato tantissime scritte sui muri Un giorno, ne ho visto una: “ARMI AGLI OPERAI”, sono corsa a casa, ho preso la macchina fotografica appena in tempo per andare a fotografarla, dopo l’hanno cancellata. Ne ricordo un’altra: “CHE COSA POSSO FARE IO SE SONO SOLO E LORO SONO TANTI? Mi colpì molto perché era un muro lungo, con questa specie di grido solitario”

e ancora l’invasione della droga:

 “[…] sono convinta che uno dei modi per debellare la generazione del ’68 sia stato inondare l’Italia di droga, quindi c’è stata una decimazione di questa rivolta giovanile piena di speranze che è stata fatale”

per finire con l’assassinio di Moro da parte delle Brigate Rosse che

“ha concluso il ciclo del lavoro che stavo facendo. Mi è sembrata una campana a morto”

una campana che suonava per un Paese intero non soltanto per l’uomo che fu ucciso.

Il lavoro di Carla finisce dove la vita finisce, in qualche modo sancisce la morte della città.

È la fine di un’epoca, la fine di ogni battaglia possibile. La violenza della guerra fratricida tra destra e sinistra mai esauritasi, fin dai tempi dell’avvento del fascismo, sta per essere definitivamente soppiantata da un altro tipo di violenza, molto più sottile e perversa, quella del consumismo già presagita qualche anno prima da Pier Paolo Pasolini che lo aveva definito “il nuovo fascismo”.

Negli anni Settanta c’era grande fibrillazione. Ci si trovava a vedere certi film d’avanguardia che ora mi appaiono allucinanti. C’era una sorta di militanza nella cultura. Poi gli anni Ottanta e il craxismo hanno posto fine a questa militanza. All’epoca feci un libro fotografico intitolato Mondo cocktail nel quale volevo cogliere proprio il cambiamento del costume, una cosa interessantissima, per me. La gente si travestiva, si camuffava, era un bello studio sociologico. Ma non è questo periodo di passaggio che ha rovinato la città. Sono stati certi sindaci che invece di fare cultura hanno guardato ad altro. L’hanno ridotta a una città bottegaia.

Dunque Milano per Carla diventa una enorme città bottega. Oggi, con un linguaggio a cui è stata tolta la polvere, si usa dire città dello shopping, una città da consumare:

“Piena di strade e di negozi
E di vetrine piene di luce
Con tanta gente che lavora
Con tanta gente che produce”

come già cantava Giorgio Gaber nel 1969.

Carla Cerati coglie con grande acutezza e ironica autocritica anche questa metamorfosi producendo nel 1974 il libro Mondo Cocktail:

“…la mia intenzione era gettare un’occhiata critica in quella parte della nostra società; ma mi dovetti correggere, poiché questo avrebbe lasciato supporre la presunzione di non farne parte io stessa, e invece ero come il bambino allo zoo davanti alla gabbia delle scimmie: le osserva e si diverte mentre altri lo osservano e si divertono del suo divertimento.”

Sono affermazioni queste che rendono evidente quale fosse il livello di osservazione di Carla Cerati, del lavoro continuo e costante di scavo su se stessa. D’altra parte, nei suoi romanzi, non si è mai fatta scrupolo di mostrarsi per ciò che era, senza veli, in una sorta di auto-analisi pubblica, una necessità di mettersi a nudo impellente che non riusciva restare chiusa dentro di lei.

Nelle conversazioni che abbiamo avuto successivamente all’intervista del 2013, Carla mi ha più volte ribadito che la scrittura per lei rappresentava il passato, vale a dire la sua storia personale – una autobiografia lunga quattordici romanzi – mentre la fotografia mostrava il presente cioè il racconto della sua vita mentre si svolgeva. Questi due linguaggi in realtà nell’opera di Carla Cerati si stringono, corpo a corpo: Carla scrive come fotografa e fotografa come scrive, in realtà il suo linguaggio è uno soltanto. L’Io e l’Anima, il dentro e il fuori, l’ombra e la luce, una dicotomia comune ad ogni individuo, i più non se ne rendono nemmeno conto. Carla Cerati ne ha fatta la sua ragione di vita.

 

Giovanna Gammarota

foto di copertina:  Carla Cerati in una foto dell'artista Angelo Barcella
nel testo dell'articolo: 2 slide dell'intervento
pagina sul sito del Castello Sforzesco:
https://milanocastello.it/it/content/carla-cerati-il-'68-e-morire-di-classe-mostra


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