Nel mondo, sono state volontariamente uccise 89.000 donne nel corso dell’anno 2022. Mentre si attendono ancora i dati ufficiali del 2023, il dossier redatto da UN Women ha analizzato come il 55% delle vittime (48.000) siano state uccise da familiari. Nonostante il dato sia il più alto degli ultimi vent’anni, viene sottolineato come i numeri non siano ancora totalmente esaustivi e la difficoltà nel collezionare dati precisi fa temere un margine più ampio di vittime.
L’anno 2023 si è concluso con un femminicidio che dall’Australia ha attirato l’attenzione mediatica internazionale, con l’omicidio di Melissa Hoskings da parte di suo marito, Rohan Dennis.
La Hoskings, campionessa mondiale di ciclismo su pista e detentrice del record mondiale di inseguimento a squadre, è stata volontariamente investita dal pick-up del marito, Rohan Dennis anch’egli ciclista argento olimpico e due volte campione del mondo nell’inseguimento a squadre. Arrestato dalle forze dell’ordine con l’accusa di omicidio volontario è stato scarcerato su cauzione e attenderà ai domiciliari il processo fissato per il prossimo 13 marzo.
Il femminicidio, che ricalca il pattern ricorrente già presentato dal dossier UN Women, ha trovato ampio spazio sulla cronaca sportiva, vista la notorietà dei coniugi, ma in Italia ha anche messo in luce le gravi lacune da parte del giornalismo sportivo italiano nell’affrontare in maniera corretta le tematiche legate al femminicidio.
A una brevissima distanza dal discorso di fine anno del Presidente Mattarella che ha sottolineato l’impellenza di un cambiamento radicale di carattere culturale per ridurre i femminicidi, il giornalismo sportivo italiano si è trovato impreparato.
“La follia del campione” titola in un trafiletto in prima pagina la Gazzetta dello Sport. Una follia, un atto sconsiderato in un momento di poca lucidità, un gesto estremo e imprevedibile, un raptus non convenzionale di un campione che ha perso la testa e si è trasformato in un mostro. “Se il campione si trasforma in assassino” titola la versione online della Rosa quasi ad evocare un romanzesco Mr Hyde o un mitologico licantropo. Una visione ben diversa dalla dal pattern ricorrente fatto emergere dai dati già precedentemente citati. Tornano alla mente le parole di Elena Cecchettin, nella sua lettera al Corriere della Sera: “Un mostro è un’eccezione, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece la responsabilità c’è. I «mostri» non sono malati, sono figli sani del patriarcato.”
La comunicazione giornalistica del primo quotidiano sportivo d’Italia sembra invece cercare di sviare in tutti i modi possibili una responsabilità patriarcale, un filo rosso che riconduce a una pratica in aumento in ogni angolo del mondo, cimentandosi in un dribbling eccezionale.
“Una vita piena di ombre” si legge nel sottotitolo dell’articolo cartaceo, mentre sulla versione online si sottolinea la follia approfondendo l’instabilità dell’atleta: “Non era mai facile capire con quale Rohan Dennis si stesse parlando. Come se in lui convivessero due persone diverse” riferisce alla Gazzetta Brent Copeland ex manager di Dennis. Un approfondimento analitico sulle dietrologie del delitto, il tentativo di scavare nel subconscio dell’atleta di successo ignorando la natura più dura e cruda dell’accaduto: l’ennesimo femminicidio. “Rohan non ha avuto una vita facile“, riporta la Gazzetta riferendosi ai problemi famigliari che Dennis ha avuto nella sua gioventù ad Adelaide, ma su patriarcato e femminicidio neanche una parola.
“La tragedia del ciclista australiano” si legge nell’occhiello dell’articolo cartaceo, quasi come se l’assassino diventasse improvvisamente la vittima: vittima delle sue debolezze, delle sua fragilità, di disturbi inascoltati che l’hanno trasformato in un mostro, che l’hanno reso protagonista di una vera e propria “tragedia”.
Ma può una tragedia replicarsi costantemente quasi cento mila volte in un anno con modalità, dinamiche e motivazioni ricorrenti? Emerge la necessità di portare al centro del dibattito le cause reali del femminicidio, di dare spazio ad un’analisi profonda e svincolata dall’individualità della cronaca per fornire gli strumenti per comprendere il reiterarsi di omicidi e femminicidi tra le mura domestiche, smettendo di parlare di “incidenti”, “tragedie” o “follie”.
Ampio spazio viene riservato sul sito gazzetta.it a una rassegna ai limiti del macabro dove vengono elencati i “campioni/assassini” senza minimamente abbozzare alla ricerca di un minimo comune denominatore nei femminicidi all’interno dello sport, preferendo invece sensazionalismo e clickbait superficiale.
“Serve un’educazione sessuale e affettiva capillare, serve insegnare che l’ amore non è possesso” ha scritto Elena Cecchettin. Serve con urgenza un’educazione giornalistica che abbia gli strumenti per affrontare i femminicidi con parole corrette, con punti di vista analitici, con competenze specifiche, con un senso di responsabilità proprio del mestiere. Una carta deontologica che impedisca di confondere vittime e carnefici, di presentare come disgrazie delle prevaricazioni ricorrenti, di preferire il sensazionalismo del singolo caso ad una delle maggiori piaghe la cui soluzione richiede studio, approfondimento e responsabilità.
02/01/2024
Gian Marco Duina