Esperienze di consapevolezza d’acquisto tra il globale e il locale

In un periodo in cui gli obiettivi di sviluppo definiti dall’ONU Sustainable Development Goals appaiono sempre più urgenti, rivestono un ruolo rilevante anche le iniziative e le scelte ponderate di consumo dei singoli cittadini, la cui premessa è la necessità di informazione. Una possibilità di impegno è la dimensione del consumo critico, che nasce dalla consapevolezza dell’impatto ambientale, sociale ed economico della produzione e del trasporto di un bene, come evidenzia un’interessante scheda realizzata da Dario Pedrotti ed Emanuela Citterio per il portale Unimondo.org che dipinge un utilissimo quadro della situazione. Il tema viene annualmente portato alla ribalta della scena economica nazionale da alcune fiere, quali Fa’ La Cosa Giusta, ma non mancano esempi di attività su scala più ridotta, che enfatizzano e sviluppano concetti quali la filiera corta e il chilometro zero.

Due esempi di consumo critico che possono vantare una presenza capillare su scala nazionale ma agiscono su dimensioni locali sono le esperienze dei GAS, più che ventennale, e quella più recente dell’Alveare Che Dice Sì. Per approfondire l’argomento, ricorriamo al contributo di alcuni dei protagonisti di queste microeconomie, in particolare legati all’esperienza dell’Alveare. L’occasione è una conversazione con Eugenio Sapora, fondatore dell’Alveare Che Dice Sì, per quanto riguarda la situazione complessiva su scala nazionale e internazionale, e con Ileana Iaccarino, che gestisce tre Alveari a Milano, in merito alla dimensione locale e alle realizzazioni concrete della startup.

“L’idea alla base dell’Alveare” ci racconta Eugenio “è l’intenzione di prendere un modello di consumo critico ed etico e renderlo disponibile alle masse grazie alla tecnologia”, unendo i crismi del legame con il territorio, della sostenibilità e della moderna sharing economy di epoca digitale: il produttore e il consumatore entrano in contatto attraverso una transazione online e si incontrano successivamente presso un Alveare, cioè un punto di raccolta e distribuzione delle merci, per la consegna fisica dei prodotti acquistati virtualmente. L’origine del progetto è da ricercarsi altrove, cronologicamente e geograficamente, come descrive il fondatore dell’Alveare: “Già i GAS, più di 25 anni fa, cominciarono a proporre in Italia una voce controcorrente che offrisse ai consumatori un’alternativa al sistema della grande distribuzione organizzata, ma partecipare a un Gruppo di Acquisto Solidale, o gestirlo, richiede tanto impegno da poter essere definito attivismo, ed è un modello valido, sostenibile ed etico, che tuttavia non riesce a coinvolgere le masse”. Infatti è proprio sull’aspetto dell’accessibilità che l’Alveare intende attuare una rivoluzione, lavorando in complementarietà con i GAS, cavalcando la pratica della vendita online, sempre più diffusa dopo l’esplosione di Amazon, ed enfatizzando la propria peculiarità: l’utilizzo di uno strumento globale per creare relazioni locali. La genesi dell’Alveare è molto più recente rispetto ai GAS e si localizza in Francia, dove prende vita nel 2011 il progetto denominato La Ruche Qui Dit Oui, che si diffonde successivamente in altri paesi europei (Inghilterra, Spagna, Germania e Belgio) tra cui l’Italia, partendo da Torino. Dal novembre 2014 a oggi, in Italia sono stati aperti più di 150 Alveari, a detta dei gestori un buon risultato anche se c’è ancora molta strada da percorrere, a partire dalla mentalità e dalla consapevolezza del consumatore medio. “Alla base di una rivoluzione dei consumi si trovano le pietre miliari dell’informazione e del riconoscimento dell’importanza della sostenibilità sociale e ambientale,” sottolinea Eugenio con un excursus sui numerosi temi che dovrebbero rientrare nell’educazione al consumo: dalla conoscenza della ricchezza enogastronomica italiana, dei sapori e della stagionalità, fino alla consapevolezza delle dimensioni economiche della produzione, come la differenza tra filiera corta e chilometro zero o le condizioni dei lavoratori dell’area agroalimentare.

Ileana, che dopo essere stata cliente del primo Alveare milanese in zona Sarpi ha scelto di aprirne uno proprio, ci aiuta invece a comprendere la micro-dimensione del singolo Alveare, una sorta di “GAS 2.0”. Attualmente ne gestisce tre (Losanna, Archinto e Gambara) e ci conferma che ogni gestore è un piccolo imprenditore, che deve seguire regole comuni, quali il range di distanza massima dalla quale possono provenire i prodotti, ma che detiene altresì ampi margini di autonomia. Secondo Ileana “l’Alveare è innanzitutto un luogo di incontro e convivialità, in cui il consumatore e il produttore si conoscono e si creano relazioni tra i membri, in una dinamica di coesione sociale”. Ciò avviene all’interno di uno spazio che non ha un’identificazione precisa (qualunque luogo può ospitare un Alveare, dal privato al pub) e che si trasforma in Alveare solo nel momento della distribuzione settimanale. Il coinvolgimento della comunità locale è notevole, attestato dai 740 membri dell’Alveare in via Losanna e dai 350 di quello in Piazza Archinto. I vantaggi derivanti da questo aspetto positivo di coesione sono complementari ovviamente a quelli legati al tema del consumo vero e proprio: gli alimenti sono freschi, in quanto non attraversano la filiera, e spesso provengono da realtà di produzione a forte impatto sociale che utilizzano il lavoro per includere soggetti svantaggiati della popolazione. Oltre ad ospitare la scambio fisico dei prodotti, un Alveare è anche un ente a suo modo culturale, in quanto motore di consapevolezza, nell’organizzazione e promozione di iniziative di educazione ambientale e alimentare, ad esempio visite per bambini presso fattorie didattiche.

“Lo spirito dell’alveare” sono le parole con cui si accommiata Eugenio Sapora “è lo sforzo di fornire alle persone i mezzi per rimpossessarsi della catena alimentare: i produttori devono avere la possibilità di vendere e i clienti di comprare in modo agevolato e consapevole”.

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