tra le code di macchine nel traffico e le moltitudini accalcate nello shopping

 

Gli attentati dei camion e dei furgoni dell’ISIS nelle metropoli europee hanno portato alla necessità di ostacolare l’accesso a semplici mezzi automobilistici che son stati trasformati senza grandi difficoltà in orribili strumenti omidici, che hanno causato stragi a Nizza, Berlino, Londra e Barcellona.

Si sono così moltiplicate in un batter d’occhio la presenza delle antiestetiche barriere di cemento, chiamate “new jersey”, per la verità molto brutte, e che unitamente alla presenza sempre più numerosa di forze di polizia e dell’esercito nelle città, contribuiscono a creare una immagine complessiva di disagio, timore e paura, evocando carceri, muri e gabbie.

Interessante la “reazione” di architetti, artisti, designer che hanno provato a rispondere in modo creativo al danno estetico creato dai muri di cemento, ipotizzando proposte, idee e bozzetti – in primis Stefano Boeri (*), che non hanno tralasciato di affrontare l’argomento in termini culturali oltre che creativi, per limitare oltre il danno d’immagine, quello psicologico causato da chi “attacca” le nostre città con l’unico scopo di diffondere il terrore. Da qui gli sforzi anche delle amministrazioni comunali come Firenze che fa una vera e propria “Chiamata alle Arti”, bello ed efficace slogan con cui si “…intende studiare e proporre delle soluzioni innovative che trasformino i dispositivi per la sicurezza in elementi di contenimento del verde e di arredo urbano di qualità” (#florencecalling).

Tutto giusto e, aggiungo, anche “bello” il senso di “resilienza” che si vuole sviluppare nella cittadinanza: una “bellezza” che se non può salvare il mondo dall’orrore e dal terrore, può contribuire, malgrado questi, a una presa di consapevolezza attiva e creativa di ricerca di serenità.

Mi viene però una osservazione da fare e riguarda non tanto e non solo la contingenza degli attacchi con un camion, un suv o una semplice e banale automobile, quanto piuttosto la struttura delle nostre città italiane e in generale europee. Queste sono state costruite, e in gran parte ri-costruite durante il dopoguerra, di fatto “a misura di automobile”.

Dove, cioè, tutto è stato pensato, studiato, progettato e realizzato avendo un unico “mezzo di trasporto” di superficie come parametro: la macchina, in particolare privata. Ed è stata una grande intuizione e innovazione inventarsi un trasporto pubblico veloce ed efficace posizionandolo non a caso “sotto” la superficie, cioè la metropolitana. D’altronde al dopoguerra della ricostruzione in Europa è succeduto il periodo del boom economico, dove lo status symbol è diventato proprio il possesso privato della macchina a quattro ruote. Così facendo le città si sono trasformate in vere e proprie “piste automobilistiche” e il traffico è diventato una costante fisica.

Solo il crescere di una coscienza collettiva ecologica civica unita alla consapevolezza del crescente inquinamento atmosferico e alla cementificazione e asfaltamento delle città hanno portato dopo gli anni del boom economico al bisogno di verde, di isole pedonali, di spazi semplicemente aperti, riscoprendo i luoghi non congestionati dal traffico. Ecco che nelle città di oggi molte strade sono state ri-conquistate dall’arte del camminare, attraverso il fenomeno di moltitudini di persone che riscoprono – appunto – la bellezza dell’attraversamento lento, unitamente allo sviluppo di shopping sempre più consumistico.

Un elemento rilevante nelle città è l’attraversamento veloce ma alternativo. La bicicletta è diventata soprattutto nel nord Europa uno dei principali mezzi di trasporto, assolutamente competitivo in economia, efficacia e velocità. A chi del resto non è capitato di essere quasi investito, da una biciclette ad Amsterdam o in una delle tante città olandesi, belghe, tedesche? Questa oggi è una immagine reale, una “fotografia” delle città europee, e il fatto che non lo sia ancora in questi termini in Italia è un segno netto di arretratezza culturale, ecologica ed etica, che va programmaticamente rimosso: e Milano che già è in Italia in questo “esemplare”, ne deve fare ancora moltissime di strade per biciclette e e per pedoni!

E’ dunque giusto mettere le barriere di cemento per evitare che un camion, un suv o una utilitaria possa fare facilmente strage di uomini, donne e bambini che passeggiano. Ma è del tutto evidente come sia molto, molto facile aggirare queste barriere, compiendo stragi anche a piedi. Senza dimenticare che ci sono feriti e morti – e tanti – per incidenti stradali, per non parlare dei danni e dei morti causati dall’inquinamento: altri “terrorismi” con cui conviviamo da sempre.

E’ certo che un ri-disegno delle città che comporti una giusta cura di spazi pedonali e ciclabili e che disciplini la massima velocità dei mezzi meccanici a 30 km orari, renderebbe più difficile il compimento di stragi.

Per affrontare in modo resiliente una sfida che è sì terroristica ma anche dissuasiva della ex “civiltà” dell’automobile, bisognerà che creativi, architetti e urbanisti si sforzino nel darci delle idee per r-innovare le città trasformandole in “luoghi di ritrovo” nè di auto nè di masse.

Forse, tra esseri inscatolati su ruote e frenetiche moltitudini accalcate nello shopping, andrebbero immaginate delle letterali “vie di mezzo” per le cittadine e i cittadini, come nuovi luoghi di vita, con altrettanto corretti stili di vita.

Michele Papagna

* la foto di copertina è un bozzetto di Stefano Boeri dal servizio del Corriere della Sera del 20/08/2017 in cui oltre che dell’architetto milanese, vi sono proposte e spunti di Benedetta Tagliabue, Mimmo Paladino e Michelangelo Pistoletto.  

** le foto in mezzo sono due recenti scatti di una nostra socia: la prima in una città olandese, dove come è evidente “comandano” le biciclette, la seconda al quartiere Isola di Milano, il quartiere di Milano “in transizione”. 

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