Frame tratto da Carla Cerati si racconta, marzo 2011.
Si è appena conclusa a Milano l’ottava edizione di MIA Photo Fair, la fiera internazionale d’arte dedicata alla fotografia e all’immagine in movimento. La scommessa che Fabio Castelli affrontò nel 2011, vale a dire l’idea che potesse esserci in Italia una fiera mercato dedicata al collezionismo di fotografia, pare essere stata vinta. Nel tempo abbiamo assistito al consolidarsi dell’impianto con alcune inevitabili variazioni rispetto a ciò che, in origine, rappresentava l’idea forte: quella che a esporre fossero gli stessi autori oppure gallerie che a loro volta puntavano su un artista specifico della loro scuderia. Quest’anno abbiamo assistito al moltiplicarsi degli autori rappresentati da ciascuna galleria e a ben pochi fotografi che hanno intrapreso la via dell’auto promozione. Dunque ciò che è avvenuto è la trasformazione in una vera e propria fiera classica. Forse un po’ troppo costipata nel luogo prescelto, The Mall, dove gli stand sono apparsi particolarmente affastellati creando, a volte, l’effetto contrario a quello desiderato: la non visibilità, soprattutto nei momenti clou della manifestazione. Ad ogni buon conto occorre rendere merito agli organizzatori che continuano con costanza a perseguire il loro obiettivo. Per dirla con le parole di uno degli espositori/autori: si tratta evidentemente di “un momento che mostra un’ampia selezione di fotografi tutti insieme che altrimenti non si avrebbe l’occasione di vedere”. Verissimo, ma è anche vero che il livello qualitativo deve aumentare: oppure dobbiamo continuare a credere che il pubblico italiano debba essere perennemente considerato alla stregua di un cattivo scolaro che non impara mai nulla?
Non me ne vogliano Fabio Castelli e il suo staff, per l’opinione sempre un po’ severa che contraddistingue il mio approccio a questo evento, sono però convinta che si possa e si debba fare di più anche se l’attenzione, in una fiera, resta inevitabilmente concentrata sul tema commerciale. Rimane tuttavia il fatto che il radicamento nel tessuto della città e nell’ambiente della fotografia sia avvenuto e la presenza massiccia e diversificata degli operatori del settore lo dimostra.
Un’altra novità dell’edizione di quest’anno, ed è il motivo principale per il quale ne scriviamo qui, è il varo di un nuovo premio dedicato agli archivi fotografici. Il Premio Archivi Aperti è un riconoscimento promosso da MIA Photo Fair, con il patrocinio di Rete Fotografia e il supporto di Eberhard & Co., di IO Donna, femminile del Corriere della Sera e realizzato in collaborazione con AFIP International, TAU Visual e Associazione GRIN. L’intento del premio è quello di offrire visibilità, anche attraverso un sostegno economico, ad un archivio fotografico particolarmente meritevole.
Il riconoscimento, per questa prima edizione, è stato assegnato a Carla Cerati, fotografa scomparsa il 19 febbraio 2016, autrice che ha documentato con grande passione e rigore intellettuale oltre un ventennio della società italiana, in particolare quella milanese. Nelle motivazioni della giuria si legge: “La giuria ha ritenuto interessante e significativo lo sguardo dell’autrice, fotografa, intellettuale e scrittrice, espressione di una memoria personale e sociale di grande rilevanza culturale. Carla Cerati è scomparsa nel quasi silenzio della stampa. Il premio è un segnale forte, intende salvaguardare la memoria del suo sguardo impresso indelebilmente negli scatti di un’Italia che cambia, recita, pensa, lotta, soffre, e danza. L’archivio di Carla Cerati è un bene comune da tutelare, un patrimonio iconografico di fondamentale importanza, una preziosa testimonianza delle mutazioni avvenute nella cultura e nella vita sociale del nostro Paese. Si segnala, per la straordinaria e innovativa qualità narrativa, il lungo e articolato racconto Milano Metamorfosi 1960-1990.” Una mostra, esposta nell’ambito della Fiera, ha offerto al visitatore un estratto di questo racconto oltre che una testimonianza visibile del lavoro dell’autrice premiata.
Un momento della premiazione di Carla Cerati a MIA Photo Fair, marzo 2018.
Tuttavia la ricerca di Carla Cerati non può e non deve essere considerata soltanto un documento, essa rappresenta un vero e proprio scavo nelle viscere di un mondo complesso, impersonato da quel momento storico in cui si è potuto vedere lo svolgersi di eventi di portata epocale.
Per tutti gli anni Sessanta e Settanta, Carla Cerati si dedica con la curiosità tipica di chi scopre, e contemporaneamente vive, il mondo circostante (scoperta che avviene proprio grazie alla curiosità che il dispositivo fotografico le consente di mettere in pratica), alla realizzazione di lavori fotografici commissionati da varie riviste ma che, al tempo stesso, costituiscono il suo personale sguardo su ciò che la circonda. Uno sguardo rivolto all’esterno come all’interno.
“Guardare la metamorfosi” è stata l’ultima grande retrospettiva dedicata a Carla Cerati, a cura di Sandro Parmiggiani, dal festival di Fotografia Europea di Reggio Emilia (2013). Titolo quanto mai emblematico perché l’osservazione della metamorfosi, della trasformazione di ciò che accadeva attorno e dentro Carla Cerati, è stato uno degli elementi cardine della sua ricerca, sia fotografica sia letteraria. Il nucleo di tale osservazione, il nocciolo compatto, coincide e si forma con il suo arrivo a Milano, all’inizio degli anni Cinquanta.
Sposata e madre di due bambini, all’età di ventisette anni Carla ha già assolto l’obiettivo che la famiglia le ha imposto, vale a dire lo svolgimento della vita che si confà a una donna nata nella seconda metà degli anni Venti: matrimonio e figli.
I tentativi di continuare gli studi d’arte, seppure appoggiati da quello che poi diventerà suo marito, sortiscono un effetto urticante nel padre di Carla. “Una donna non ha bisogno di studiare” – è la sua sentenza – tantomeno l’arte che, notoriamente, non serve a vivere in quanto non è fonte di sostentamento. La differenza di strato sociale tra i due genitori è evidente in modo inequivocabile e possiamo immaginare come abbia influito sulla giovane Carla: da un lato vi era un padre proveniente da una famiglia piuttosto popolare in cui la nonna era casalinga e il nonno agente di commercio – un impianto molto concreto dunque, dove si può immaginare una visione molto pratica del senso della vita – dall’altro una madre appartenente a una famiglia borghese che, viceversa, possiamo definire benestante e dalla quale provengono elementi che con l’arte hanno invece parecchio a che fare, come il pittore Giovanni Guarlotti o quei cugini musicisti che settimanalmente si riunivano per suonare.
Tale differenza costituirà la dicotomia in cui Carla Cerati si troverà costretta a vivere tutta la vita, sia quella privata sia quella artistica, ma sarà altresì la linfa che alimenterà il suo processo creativo costantemente proteso verso il riconoscimento di sé, la sua legittimazione ad “esistere” nonostante l’appartenenza al genere femminile.
Seppure accettato e posto in essere quello che sembra il suo destino inequivocabile, Carla pare fin da subito non volersi rassegnare ad esso. Personalità molto curiosa e votata alla ricerca di qualcosa che la stimoli, già nell’adolescenza i suoi interessi la conducono naturalmente verso confini che la sua giovane esuberanza desidera varcare e che nulla hanno a che fare con l’osservanza ortodossa dei precetti familiari. Carla si pone domande che vanno oltre il solo adattarsi a una condizione femminile che, nel periodo precedente il secondo conflitto mondiale, sembra essere la norma. L’ambito delle piccole città di provincia in cui ha vissuto sino ad allora le va stretto e se proprio dovrà fare la moglie e la madre che almeno questo avvenga in una grande città.
Quartiere sperimentale La Spezia in costruzione. Milano, 1964 – © Carla Cerati, courtesy Elena Ceratti.
Nei pellegrinaggi che per anni portano la famiglia Cerati a vagabondare da una cittadina all’altra, sul confine tra Lombardia e Piemonte, dopo il matrimonio Milano appare il luogo più adatto a questo salto di qualità. Siamo nel 1952, il Paese solo da qualche anno è uscito da una guerra devastante e parole come “progresso” e “sviluppo” non fanno ancora parte del vocabolario quotidiano. L’attenzione di ogni singolo è ancora radicalmente rivolta a quella ricostruzione non soltanto fisica ma vieppiù interiore. Il cinema già se ne fa precursore producendo in tempo reale le prime pellicole che affrontano questi aspetti. È proprio del 1952 il film di Rossellini Europa 51, seconda delle tre pellicole che il regista neorealista per eccellenza dedica ai temi della solitudine e dell’incomunicabilità tra individui, elementi scaturiti proprio in seguito al senso di vuoto irreparabile che la ricostruzione della devastazione prodotta dalla guerra non è riuscita a colmare.
Il desiderio di vivere la normalità è, nonostante tutto, ancora al centro delle scelte di ciascun individuo ed è così che agli occhi di Carla Cerati appare la tanto agognata città. “All’inizio sembrava una tranquilla città di provincia”, dice, da qui (punto di partenza simbolico) comincia l’indagine visiva che la porterà a documentare con perizia di particolari e acuta attitudine quella che diventerà una trasformazione radicale tanto del mondo fuori dalla porta di casa quanto di quello che si svolge all’interno delle mura domestiche.
Milano entrerà di prepotenza sia nelle immagini che Carla Cerati scatterà per un ventennio, dalla fine degli anni Cinquanta fin verso la fine degli anni Settanta, sia nei romanzi che parallelamente inizierà a scrivere, in una sorta di spirale in cui vorticheranno, a fasi alterne, il dentro della vita privata narrato compulsivamente nei romanzi e il fuori di quella pubblica mostrato altrettanto compulsivamente negli scatti fotografici, in una rappresentazione che avverrà in tempo reale.
Dagli scatti fotografici di questo ventennio scaturirà un documento lucido e preciso sulla città di adozione di Carla Cerati, in cui è possibile vedere l’ossatura della sua trasformazione prendere via via corpo: da città ancora copiosamente legata alla gente che la abita, Milano diventa città completamente dedita a quella identità commerciale anonima e selvaggia che andrà assumendo nel corso degli anni Settanta e, ancor più, negli anni Ottanta.
Milano Metamorfosi, titolo più che mai emblematico, è la summa di tutti i lavori cui Carla Cerati si è dedicata nella sua carriera di fotografa. Immagini scattate in diverse circostanze le quali, unite le une alle altre, formano al contempo la “Storia di Milano” e la storia degli uomini e delle donne che l’hanno vissuta. Come a sottolineare tale assunto, è proprio l’autrice a confezionare un montaggio, rigorosamente cronologico, in cui la sequenza è scandita da 22 capitoli (come fosse un romanzo) all’interno dei quali si dipana la narrazione di tale metamorfosi, raccontata attraverso 220 fotografie, che equivale ad altrettanti stadi della metamorfosi dell’uomo. Il luogo (contenitore) e gli individui (contenuto) vivono l’inarrestabile e inevitabile evoluzione contemporaneamente e altrettanto contemporaneamente l’autrice vive la propria imprescindibile trasformazione che, pur con mille difficoltà e contraddizioni, la ricondurrà finalmente a quel naturale mondo artistico dal quale fu ingiustamente strappata nell’adolescenza.
Muratori e apprendisti in un cantiere all’Isola. Milano, 1963 – © Carla Cerati, courtesy Elena Ceratti.
Fu l’assassinio di Aldo Moro, di cui ricorre in questi giorni l’anniversario del rapimento avvenuto ad opera delle Brigate Rosse, a decretare quella che venne considerata da tutti la fine di un’epoca di possibile e reale sperimentazione sia culturale sia politica. Tale evento decretò anche la fine dell’indagine fotografica di Carla Cerati fuori da sé, “Fu una cosa grossa” – mi disse Carla qualche anno fa – “Per me, ha concluso il ciclo del lavoro che stavo facendo. Mi è sembrato una campana a morto”. E quella campana suonava per tutti, non solo per l’uomo ucciso in quel frangente.
Galleria Vittorio Emanuele, manifestazione studentesca. Milano, 1969 – © Carla Cerati, courtesy Elena Ceratti.
Dal quel momento, in perfetta sintonia con la narrazione letteraria che la assorbe totalmente e in altrettanta sintonia con quel tema dell’incomunicabilità che trova infine il suo raccordo con i film rosselliniani dei primi anni Cinquanta, prosegue solo l’indagine sul dentro: la scoperta dell’Io e della possibilità della sua esistenza indipendente. A livello fotografico lo sperimenterà, sempre negli anni Settanta, con i nudi di Forma di donna (1973-74), poi, negli anni successivi, con quelli di Forma, Movimento, Colore (1987-88), immagini in cui lo sguardo è rivolto sì ad una forma che appare perfetta ma della quale, paradossalmente, Carla Cerati cerca quasi l’imperfezione che non può evidentemente appartenere all’esterno (ciò che è visibile) ma appartiene invece all’interno (ciò che non si vede). Una imperfezione che metta in luce l’umano fallibile e contraddittorio, anteposto alla forma estetizzante finta cui la società andava incontro alle soglie del ventennio berlusconiano.
Carla Cerati è stata tutto questo: un concentrato mai visto di sensazioni e sentimenti resi pubblici attraverso il passaggio dal sé verso il fuori, l’esposizione di uno sguardo intimo e collettivo al tempo stesso, nel quale è possibile ravvisare una comunanza di esperienze malgrado l’individualità di ciascuno.
Un grazie va dunque alla giuria del Premio Archivi Aperti di MIA Photo Fair e ai suoi sostenitori, per aver colto la complessità dell’opera di questa artista. Auspichiamo che il Premio serva davvero a far sì che questo importantissimo Archivio (che non riguarda soltanto la città di Milano) diventi fruibile al più largo pubblico possibile, così come ci auguriamo che la sua figura possa essere rivalutata e diffusa a partire dalla ripubblicazione dei suoi romanzi, sempre attuali e da troppo tempo dimenticati.