“…Questi centri si configurano come vere e proprie isole, che al pari di Lampedusa o Nauru, costringono i migranti ad una vita di privazione che sfocia nella creazione di una società parallela in bilico costante fra l’aspirazione e la realtà, la luce ed il buio totale…”
L’estate 2017 è stata segnata dai numerosi attacchi verso le ONG coinvolte nei salvataggi in mare. Prima apprezzate e incensate per l’importante ruolo che sono tenute a svolgere – a causa di un’evidente incapacità governativa nel gestire un’emergenza che tale non è – e successivamente bollate come “taxi per terroristi”, le ONG si sono trovate in un fuoco incrociato. Da un lato la visione umanitarista propria dei processi di sviluppo già dagli anni ’70 e l’etica costruita su un intreccio di paradigmi giudaico-cristiani impongono il salvataggio, l’aiuto, il soccorso in mare. Dall’altro lato le macchinose manovre geopolitiche solcano da sempre il mar Mediterraneo intrecciando poteri ed interessi di enorme portata. In questo incrocio si sono trovate ad operare le ONG che dall’inizio del 2000 gestiscono una situazione “emergenziale”, fra leggi criminalizzanti (Bossi-Fini legge 30 luglio 2002 n°189) ed accordi aspramente criticati dall’Unione Europea (come l’accordo fra Berlusconi e Gheddafi nel 2011).
Proprio per il delicato ruolo che giocano le ONG nella gestione dei migranti nel mar Mediterraneo, è apparsa strana, se non addirittura indecente per alcuni, la proposta avanzata dal governo di includere alcune ONG nella gestione dei centri detentivi libici. La Libia non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra nel 1951 e difatti non riconosce né la categoria di profugo né quella di rifugiato con il risultato che la maggior parte degli immigrati presenti sul territorio libico sono considerati illegali e quindi espulsi dal paese. Amnesty International ha più volte sottolineato la brutalità dei centri di detenzione libici e la perdita di umanità dei soggetti detenuti in questi luoghi ma anche dei carcerieri stessi. Inoltre la passata scoperta di un hub per il traffico di esseri umani a Sabratha e l’ultima inchiesta della CNN in Libia in cui si vedevano persone vedute all’asta, hanno risollevato la polemica rispetto al tipo di ruolo che dovrebbero giocare le ONG e i governi coinvolti direttamente nella gestione di questi luoghi.
Se per molte organizzazioni i centri di detenzione, identificazione ed espulsione devono essere superati, i governi coinvolti sono di altro avviso: difatti esternalizzare la problematica migranti permette di guadagnare terreno elettorale facilmente e isola le persone detenute in questo luogo sia dal paese di provenienza che da quello in cui avrebbero il desiderio di andare. Questi centri si configurano come vere e proprie isole, che al pari di Lampedusa o Nauru, costringono i migranti ad una vita di privazione che sfocia nella creazione di una società parallela in bilico costante fra l’aspirazione e la realtà, la luce ed il buio totale.
Sebbene anche l’ONU abbia definito “scandaloso” il memorandum d’intesa elaborato e sottoscritto da Italia e Libia nel febbraio 2017 ed accusi l’intera Unione Europea per non aver fatto passi avanti nella riduzione degli abusi inflitti ai migranti durante tutto il processo migratorio, la stessa auspica un miglioramento delle misure giuridiche nazionali e una depenalizzazioni della migrazione irregolare.
Nel tentativo di muoversi nella direzione suggerita dall’ONU, in Italia il viceministro Mario Giro ha avanzato una proposta atta a coinvolgere le ONG italiane nei centri di detenzione libici. L’intenzione del governo è quella di migliorare le condizioni dei migranti rinchiusi nei suddetti centri, prima fornendo beni dall’esterno, con cibo e kit medici di prima necessità, per poi arrivare alla loro completa gestione. Le questioni che si intravedono all’orizzonte sono due: la prima inerente alla questione economica, la seconda di natura etica.
L’accordo fra Italia e Libia è prettamente di natura economica, e al di là della patina umanitarista, quello che più importa è avere la moglie ubriaca e la botte piena: un elettorato contento della diminuzione dei migranti sul territorio nazionale, l’immacolata patria, e la sicurezza degli accordi economici fra le due potenze mediterranee. Inoltre sebbene non sia stata specificata la somma di denaro complessiva destinata alla Libia da questo accordo, alcune domande sorgono spontanee. Come verranno spesi i soldi? Dove saranno costruiti questi fantomatici altri centri protetti in gestione delle ONG? Chi vi verrà ammesso? Non si corre il rischio di scegliere poi solo una specifica categoria di persone, di migranti?
La questione di natura etica si è palesata da subito a molte ONG convocate a Roma dal viceministro Mario Giro. Operare nei centri di detenzione libici, in cui da tempo si denunciano abusi e violazione dei diritti umani, è rinnegarsi? Questo accordo è accettabile per la natura delle ONG stesse? La natura assistenzialista di questo intervento non corre il rischio di perpetrare nel tempo una situazione pubblicizzata come “emergenziale” quando ciò di cui si avrebbe bisogno sarebbero delle misure strutturali di ampio respiro? Il tentativo di caratterizzare con sembianza umanitarie l’intervento politico ed economico in Libia non è passato inosservato da molte ONG e se alcune, come MSF, non hanno intenzione di farsi finanziare da nessuno e desiderano continuare a lavorare all’interno dei campi in maniera autonoma, altre invece hanno colto la palla al balzo.
Difatti 7 ONG hanno partecipato alla Call for Proposal del Governo, alcune in gruppo, altre autonomamente: CEFA, Albero della Vita e CIR hanno partecipato congiuntamente; CCS si è unita ad un ONG svizzera nella proposta e GUS ha deciso di aderire insieme ad un’associazione libica. Le ONG che hanno voluto partecipare a questa Call sono quindi CESVI, CIR, CEFA, GUS, CCS, EMERGENZA SORRISI e FONDAZIONE ALBERO DELLA VITA; nessuna di queste si occupa in particolar modo di emergenze legate al processo migratorio. Appare dunque strana la scelta di proporsi per questo bando statale che punta a portare all’interno dei centri detentivi alcune ONG con l’obiettivo di sostenerne le attività volte alla riduzione delle sofferenze delle persone rinchiuse.
Molte domande rimangono però ancora senza una risposta univocamente valida: questa proposta è indecente? Per le ONG coinvolte nel progetto partecipare a questo bando equivale a rinnegarsi? Sebbene il ruolo del governo sia ambiguo nei confronti delle ONG, trattandole come carne da macello soprattutto in campagna elettorale, sfruttando il superficiale qualunquismo dilagante, anche l’atteggiamento stesso di alcune ONG appare, per lo meno, fuori luogo. Viene da dire “ma come, prima le denunce verso un sistema detentivo ingiusto e crudele e verso un governo troppo facilone, di indole palesemente salviniana, e poi partecipate ad un bando indetto dal suddetto governo per lavorare nei centri libici accusati?”.
L’idea di centri protetti gestiti da ONG permetteranno, sulla carta, l’immediata organizzazione dei trasporti e l’aiuto alle persone che hanno intenzione di tornare al paese natio oltre alla valutazione dell’UNHCR delle richieste d’asilo. Si tratta fondamentalmente di un hotspot che ripercorre le logiche dell’esternalizzazione ed incrocia il cammino con la retorica dell’”aiutiamoli a casa loro”. Sarà dunque utile osservare come si muoveranno queste ONG nello spazio estremamente politicizzato in cui hanno deciso di agire, considerando anche che le maggiori ONG specializzate in situazioni emergenziali si sono immediatamente discostate da qualsiasi tentativo di controllo governativo del loro operato, ben ricordando il tentativo dello stesso della distruzione del loro operato durante la calda estate 2017.