Pendulum. Merci e persone in movimento. Una mostra fotografica al MAST di Bologna

Oggetto antico ma a suo modo affascinante, ipnotico, qualcuno forse se lo ricorderà in casa di una vecchia zia o della nonna, il pendolo si distingue per il suo oscillare e tale oscillazione indica il passare del tempo in una scansione certa perché meccanica. Tante oscillazioni tanti secondi, minuti, ore, giorni tutti uguali uno all’altro. Ma allora cosa ha fatto sì che, in epoca contemporanea, la percezione del tempo divenisse il flusso velocissimo di informazioni, lavoro, scambio di merci che viviamo oggi? Al centro c’è ancora l’uomo ma egli pare essere divenuto una sorta di ingranaggio entrato a far parte della macchina come già evidenziava molto bene Charlie Chaplin con il film Tempi moderni (1936). Nel mondo contemporaneo occidentale, quello considerato ricco, non ci sono più o quasi le cattedrali del lavoro, le fabbriche – ormai abbandonate in una atmosfera di totale sospensione del tempo come quelle che un fotografo preso in prestito al cinema, David Lynch, ha ripreso in The Factory Photographs. L’uomo è entrato nel “circuito” virtuale della rete: parla, vende, si intrattiene, lavora attraverso la rete. È una nuova era in cui l’umano è ormai equiparabile a questo flusso che egli stesso ha elaborato e che tende sempre più verso un inconsapevole (forse) annientamento della sua umanità.

Pendulum, merci e persone in movimento a cura di Urs Stahel è la nuova mostra inaugurata in ottobre presso la Fondazione MAST di Bologna. Il percorso espositivo traccia la trasformazione del flusso che regola il lavoro, le merci e le persone a partire dall’Ottocento fino ai giorni nostri in oltre 250 opere di 65 artisti provenienti dalla collezione di fotografia della Fondazione stessa.

Il pendolo oltre che essere simbolo del tempo che passa con il suo continuo oscillare impersona anche il cambiamento insito nel concetto stesso del suo scorrere. Oggi la velocità con la quale si produce e ci si sposta, sia per andare a lavorare sia per produrre le merci e trasportarle, si è più che centuplicata rispetto all’avvento della Rivoluzione industriale inglese della metà del XIX secolo. Ora, nel XXI secolo, viviamo l’era dell’istantaneità eppure il trascorrere del tempo è sempre uguale in quanto indefinito, immateriale. Non vi è stata alcuna accelerazione del tempo come spesso erroneamente si dice, la continua rincorsa allo sviluppo alimentata da una altrettanto continua rincorsa alla realizzazione di profitti sempre più istantanei con costi sempre più economici, sia in termini di forza lavoro sia di mezzi di produzione, ha condotto alla totale spersonalizzazione del lavoro umano aumentando enormemente il divario sociale tra il nord e il sud del mondo.

Cosa può arrestare questa folle corsa che non si riesce a capire dove potrà ancora condurci? Urs Stahel in proposito fa una riflessione condivisibile quando, nel suo testo introduttivo alla mostra, si riferisce ai flussi migratori scrivendo “Il solo fenomeno che ci spinge a rallentare il passo, a cercare persino di fermare tutto, è quello delle migrazioni. Le uniche barriere realmente insormontabili sono quelle che frenano i perdenti locali e globali della modernità”. Dunque la massa irrefrenabile dei popoli del sud del mondo (i perdenti) attratti dalla presunta ricchezza del nord del mondo (i vincitori) finirà paradossalmente per salvarci dal vortice della velocità in cui siamo inesorabilmente caduti? Oppure saranno anch’essi fagocitati e trasformati da questa delirante velocità? Un tunnel del quale non si vede l’uscita e non si conosce la dimensione reale.

Mimmo Jodice, Napoli, Manifestazione a Piazza Garibaldi / Naples, Demonstration in Piazza Garibaldi, 1967. Stampa ai sali d’argento / Gelatin silver print, 19,3 x 29 cm © Mimmo Jodice.

Il reale, ecco un altro concetto che nella contemporaneità del lavoro si è completamente modificato così come lo si conosceva tradizionalmente. Il reale ha ormai molteplici facce e ciascuno riconosce quella che meglio gli si confà. Nel frattempo è proprio il fenomeno della migrazione che, come giustamente osserva Stahel, in certi ambiti come ad esempio quello dell’agricoltura, riporta il lavoro a una dimensione di sfruttamento pari a quella che nel sud degli Stati Uniti, sempre nell’Ottocento, toccò ai raccoglitori di cotone. In pratica mentre In Europa si cominciava a meccanizzare il lavoro negli Stati Uniti si schiavizzavano i neri costringendoli a lavorare a mani nude nei campi. Dunque il tempo possiede due velocità uguali e contrarie, allora come adesso.

Il concetto di realtà è poi stato ulteriormente parcellizzato dall’imporsi della tecnologia che ha ridotto la forza lavoro a proprio supporto. Già nel 1968 l’idea dell’autonomia della macchina dall’uomo fu egregiamente resa da Stanley Kubrik che con l’iconico film 2001 Odissea nello spazio mostrava la possibilità di “autonomia” dell’elaboratore HAL 9000. Ritenuto non più affidabile, HAL per “salvarsi” dalla disattivazione decideva consapevolmente di eliminare quattro dei cinque elementi dell’equipaggio dell’astronave Discovery one in missione verso Giove arrivando ad assumere comportamenti decisamente umani.

David Goldblatt, I passeggeri di KwaNdebele / The Transported of KwaNdebele, 1983-1984. Stampa ai sali d’argento / gelatin silver print, 32,5 x 44, 6 cm © The David Goldblatt Legacy Trust, Courtesy Goodman Gallery, Johannesburg and Cape Town.

Jacqueline Hassink, London 32, video stills from the installation iPortrait /fotogrammi dall’installazione iPortrait, 2010-2017. Courtesy of the artist.

Le fotografie esposte in questa mostra interpretano esteticamente questi aspetti: il cambiamento strutturale verificatosi nel corso del tempo. All’eleganza calda delle foto d’epoca si contrappone infatti la luce algida e impersonale di quelle contemporanee, come se gli ambienti di lavoro fossero divenuti anonimi mentre in passato avessero un’anima, un volto, seppure sporco, ma vivo. Vivi e umani – si può quasi percepire lo sfrigolare della corrente che li attraversa – sono i fili del telegrafo fotografati da Tina Modotti se confrontati agli elaboratori ripresi da Henrik Spohler in cui sappiamo passare una infinità di dati che non possiamo vedere e nemmeno immaginare ma che viaggiano molto velocemente: ancora la realtà e il virtuale.

Alle immagini di Helen Levitt prese nella metropolitana di New York, di David Goldbatt che fotografa i lavoratori neri che prendono l’autobus per recarsi al lavoro quando è ancora notte e di Mimmo Jodice che documenta poeticamente il viaggio di un immigrato giunto nella grande città del nord d’Italia vengono contrapposte quelle registrate da Jacqueline Hassink che mostrano l’immagine del moderno pendolarismo in sette grandi città del mondo: una totale alienazione indotta proprio dall’uso dei dispositivi tecnologici come i cellulari. In questo senso il pendolo regola lo sguardo dello spettatore: da un’epoca a un’altra, da un tempo a un altro.

Mimmo Jodice, Milano, Stazione Centrale / Milan, Central Station, 1969. Stampa ai sali d’argento/gelatin silver print, 29 x 19,3 cm. © Mimmo Jodice

Eppure le immagini più potenti della mostra non sono queste appena descritte che fungono appunto da semplice descrizione di un inevitabile processo bensì quelle di pochissimi autori i quali hanno immortalato qualcosa che non ha nulla a che fare con il concetto di velocità e tanto meno con quello dell’oscillazione. Sono immagini che arrestano il tempo riportandoci a una dimensione davvero reale in cui riusciamo a entrare nel soggetto ripreso e a porci delle domande.

Cosa ha a che fare la serie di immagini di Yto Barrado – artista franco marocchina – Assembraggio idraulico (2014) in cui vengono mostrati alcuni esempi di montaggio di tubi idraulici “messi in mostra” contro un muro di piastrelle bianche, come quelle dei più luridi bagni pubblici, che vogliono invece pubblicizzare il lavoro di professionisti marocchini? Le fotografie sono statiche, in nessun modo rimandano al tema della velocità eppure spiccano tra quelle esposte per il senso quasi di repulsione che si prova nell’osservarle. L’ambientazione “sporca” rimanda alla matericità reale del lavoro. Il lavoro non è mai piacevole, il lavoro è sempre fatica anche quando pensiamo che ci piaccia, quello dipendente ma anche quello autonomo perché sottostà gioco forza a regole precise dettate dal mercato del consumo. Dunque non si riesce a immaginare un luogo asettico in presenza del lavoro umano se non in funzione delle macchine o della tecnologia che sostituisce l’umano stesso.

Edgar Martins, Paint shop, BMW Group Plant Munich (Germany), 2015 – © Edgar Martins.

Un altro dei lavori esposti che manifestano una enorme potenza è Nomadi (2008) dello spagnolo Xavier Ribas. Il 24 febbraio 2004 una sessantina di famiglie zingare che vivono in un appezzamento industriale dismesso a Barcellona vengono sfrattate dai proprietari del sito, la società Necso-Acciona, che utilizzando degli escavatori distruggono il pavimento di cemento rendendolo inagibile. Il terreno così accidentato, le fessure e i frammenti di lastre di cemento che ricordano “i resti di antiche stele maya” – come suggerisce l’autore – diventano la testimonianza di questo spostamento pur mostrandoci un territorio immobile che ha come subito una sorta di terremoto ove le genti non potranno più tornare. Anche qui il tempo è fermo e c’è soltanto come una eco che si insinua nella mente dello spettatore, quella della vita che lì si svolgeva e che è stata costretta ad andare altrove. Queste fotografie, statiche come le precedenti, inducono l’osservatore a pensare senza mostrare nulla di quanto è accaduto.

Torna qui il tema dell’etica del fotografare che sempre dovrebbe essere considerata in qualsiasi linguaggio artistico. Incide di più guardare un’immagine in cui una massa umana viene spaventata e spinta all’esterno di un edificio perché considerata abusiva o invece una che mostra la distruzione di quel luogo pur di non farlo diventare un campo rom? Conseguentemente sorgono domande che raramente lo spettatore riesce a porsi data l’offerta abituale dell’immagine fotografica, domande sui diritti alla sopravvivenza, da qualunque parte del modo si provenga e in qualunque parte si vada, a qualsiasi estrazione sociale si appartenga.

Il flusso di uomini, movimento reale e non virtuale, indipendente da macchine e tecnologie, non si arresterà nonostante le barriere che i governi cercano di porre al suo ingresso e forse sarà proprio questo flusso a impedire – come credo Urs Stahel volesse intendere – che la velocità del “fare” e del “consumare” prenda il sopravvento rendendo alfine l’uomo soltanto un ingranaggio del sistema.

Alexey Titarenko, Stazione della metropolitana Vasileostrovskaya (Variante Folla 2), dalla serie“Città delle ombre” – Vasileostrovskaya Metro Station (Variant Crowd 2), from the series “City of Shadows”, 1992. © Alexey Titarenko, courtesy of Nailya Alexander Gallery, New York

Foto di copertina in evidenza: Robert Häusser, Strada per la fabbrica / Road to the Factory, 1980 – Stampa ai sali d’argento / gelatin silver print, 29,5 x 41 cm. © Robert Häusser – Robert-Häusser-Archiv / Curt-Engelhorn-Stiftung, Mannheim.

INFORMAZIONI
Pendulum. Merci e persone in movimento, a cura di Urs Stahel
4 ottobre 2018 – 13 gennaio 2019
Ingresso gratuito
Orari di apertura: martedì – domenica 10.00-19.00

MAST.
Via Speranza 42, Bologna
www.mast.org
Giovanna Gammarota
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