Dalla fame di vita al bisogno di esistere

“Bisogna avere la forza di uccidere le passioni quando bruciano di più, prima che si indeboliscano e lascino la scena al rimorso”.

La civiltà ellenica parlava di “Eros e Thanatos”, Freud le chiamava “pulsioni” (Eros come pulsione alla vita e Thanatos alla distruzione), lo stile documentaristico ottocentesco, ancora affetto da vividi retaggi di romanticismo, ma allo stesso tempo precursore del crudo realismo, incasella il tutto sotto la voce: “erotismo prorompente”.

Ed ecco che la sensualità di una Madame Bovary riscritta da Letizia Russo, diretta da Andrea Baracco  e messa in scena al teatro Franco Parenti di Milano, trova la sua massima espressione in una Lucia Lavia che, reinterpretando un ruolo in passato assegnato alla madre, esplicita la sessualità del forse più “chiacchierato” personaggio femmineo di tutti i tempi attraverso la chiave di una profonda devozione e della sincera riconoscenza per un’eredità targata anni’90  legittimamente consegnatele.

Un processo per oltraggio alla morale e alla religione quello a cui venne sottoposto Flaubert verso la fine dell’800 per aver suscitato tanto successo quanto scandalo dissacrando l’ideale dell’eroina romantica e trasformandola in una comune e mediocre donna di provincia, persa dietro sogni illusori e irrealizzabili e mossa da una frenetica sconvenienza nel districarsi di una vicenda tanto quotidiana quanto tragica.

Ed è proprio la sconveniente sessualità esplicita, talento e tragedia di Emma Bovary, che trasforma l’innata fame di vita della protagonista in un inarrestabile bisogno di esistere liberamente, svincolata da qualsivoglia convenzione che sia essa storica, sociale oppure economica.

Dove sono i timori, i tremori dei libri?” E’ così che la Madame Bovary di Lucia Lavia insegue quella felicità fatta di passioni e sofferenze tanto decantata dalla letteratura quanto inesistente all’interno di un matrimonio visto da un lato come unica possibilità di fuga da una vita condannata alla monotonia: “Curi anche me. Sei una mia paziente? Mi curi dalla noia”, ma dall’altro come una insostenibile prigione rappresentata da una scenografia costruita con scalinate, ballatoi e inferriate che dipingono lo sfondo come una sorta di gabbia dietro cui nascondersi o da cui, all’occorrenza, evadere.  Una costante ricerca della libertà quella di Emma Bovary, un moto perpetuo che la conduce, forse anche troppo spesso e prima del tempo, sull’orlo dell’autodistruzione, in un’ottica di consapevole rassegnazione legata a dinamiche temporali, status e mutamenti sociali. Una scoperta della sofferenza come opportunità di reminiscenza e quindi di conoscenza: “Se avessi tre anni come Berthe, ti chiederei a che serve soffrire? Soffrire serve a ricordare e capire”. Un realismo disarmante che impedisce ogni censura o scappatoia, lasciando allo stupore del pubblico e alle musiche travolgenti il compito di anticipare le atmosfere.

E se si pensa che in contemporanea con la rappresentazione del(l’urbano) teatro Franco Parenti, in un altro spazio, quello occupato dalla maestosità del Piccolo Teatro Strehler, andava in scena, per la regia di Antonio Latella, il “Pinocchio” di Collodi, non si può non notare come l’estenuante tragico realismo di Flaubert, reinterpretato dall’ingegno di Letizia Russo, abbia catturato gli animi di ogni fascia di pubblico forse ancor più di una delle più celebri fiabe di tutti i tempi, che probabilmente, proprio a causa un’eccessiva reinterpretazione allegorica, si è mostrato carente di quell’accezione popolare che ne faceva “maraviglia”.

Un Weekend tutto all’insegna della cultura quello di metà gennaio nella città Meneghina dunque. Un’energica e dotta alternativa al quotidiano rumore “consumistico” di una “Milano che (abitualmente) ride e si diverte ma che quando piange, piange davvero”.

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