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Impero insanguinato

Gli storici definirono i tentativi italiani di costituire un Impero un “colonialismo povero e straccione”: tentativi che si tradussero in violenze aberranti, crimini contro l’umanità e il definitivo rafforzamento di una mentalità razzista che ancora oggi permea la cultura della penisola.

L’avvento di mire espansionistiche nel bel paese risale al periodo compreso tra 1880 e 1884, con il governo di Crispi e De Pretis che appoggiò le prime imprese italiane in Corno d’Africa: Assab e   Massaua furono annessi al territorio nazionale, frutto questo più che altro di negoziazioni diplomatiche.  

Già da questi albori era chiaro come un nazionalismo espansionista e guerrafondaio dominasse ampiamente la scena politica. Crespi stesso nei suoi discorsi teorizzava che l’Italia si trovasse nel momento storico più propizio per espandere i propri confini. In tal modo, inoltre, si sarebbe dato spazio e lavoro alle migliaia di cittadini impoveriti che altrimenti avrebbero continuato a emigrare al di là degli oceani, come del resto accadeva da tempo.

Esponenti dell’imprenditoria e capitalismo, affamati di appalti esteri, appoggiavano a gran voce i politici nazionalisti e i militari, a loro volta smaniosi di partecipare a esotiche imprese di conquista.

Colonie agricole

Crispi era consapevole che ci si stesse approcciando allo scacchiere coloniale notevolmente in ritardo rispetto alle altre potenze europee, e che Francia e Inghilterra si erano già accaparrate gran parte dei territori africani. Esse avevano scelto i paesi da annettere ai propri imperi in base alla presenza di materie prime da sfruttare e mercati da soddisfare con le proprie produzioni interne. L’Italia, invece, aveva bisogno di un impero per dare della terra ai braccianti; insomma, delle colonie agricole. Essa, infatti, rimaneva una potenza di seconda classe, non solo militarmente, bensì anche finanziariamente e economicamente. I capitalisti italiani erano sì alla ricerca di appalti, ma avevano già poco da investire sul territorio nazionale.

Eritrea e Somalia furono occupate per prime, seguite da una grottesca campagna militare in Etiopia (unico paese africano non dominato dall’estero), culminata con una sconfitta cocente delle truppe italiane a Adua nel 1896.

Nel 1911, nel corso della guerra con la Turchia, giunge il momento dell’occupazione della Libia e delle isole del Dodecaneso. L’impresa libica appariva particolarmente infausta e complessa a causa delle distanze da coprire e della aridità del territorio, tanto che il paese venne definito da Gaetano Salvemini uno “scatolone di sabbia”.

Le aggressioni fasciste

Con il Fascismo ovviamente le spinte nazionaliste si acuirono, al pari della narrazione imperiale di Mussolini. Albania, Grecia e Etiopia (l’aggressione della quale venne condannata dalla Società delle Nazioni, che impose pesanti sanzioni all’Italia) vennero invase, quest’ultima con successo dopo lo smacco di Adua.

Le popolazioni soggiogate erano sottoposte a atroci sofferenze e stermini arbitrari, dato che smentisce la fama degli italiani “brava gente”. In Etiopia, ancora solo in fase di conquista, furono adoperate con regolarità armi chimiche (tra cui l’iprite) che erano state severamente vietate dalla Società delle Nazioni.

Sempre in Etiopia, a fronte di tentativi della resistenza di opporsi agli invasori, furono scatenate contro i civili rappresaglie inaudite per qualsiasi “potenza” coloniale. Celebre l’accanimento del generale Rodolfo Graziani contro il clero copto.

L’importanza degli idrocarburi libici

Il controllo dei territori libici fu sempre enormemente complesso, e, tra 1922 e 1931, richiese costanti campagne militari per neutralizzare la resistenza. Nel 1930 si iniziò a ricorrere a campi di concentramento in cui rinchiudere la popolazione delle zone più ostili per diffondere un sentimento di terrore.

La teoria razzista alle spalle dei mediocri tentativi coloniali italiani è la stessa che supporta l’intero colonialismo europeo: l’uomo bianco superiore è responsabile della tutela degli “indigeni”, e ciò lo legittima a compiere qualsiasi azione.

La Libia rimase parte del Regno d’Italia fino al 1947 e nel 1956 tutte le infrastrutture costruite dagli italiani nella ex colonia vennero cedute al nuovo Regno Unito di Libia (congiuntamente al pagamento di un indennizzo per l’occupazione).

Con il colpo di stato di Gheddafi del 1969 si assistette all’espulsione degli italo-libici e alla conseguente confisca di ogni loro bene. I rapporti tra i due paesi divennero di aperta e profonda ostilità, almeno a livello pubblico e diplomatico. In realtà mutui interessi economici legavano saldamente i governi di Italia e Libia, fin dall’avvio da parte prima di Agip e poi ENI dell’estrazione di idrocarburi nel paese nord africano. L’una non può privarsi del petrolio e del gas libico, per le casse dell’altra l’esportazione di idrocarburi è vitale.

Una simile contraddizione ha sempre caratterizzato dagli anni ’70 in poi l’ambiguo appoggio dato dalla politica italiana al governo di Gheddafi, in accordo anche con una strategia di auspicata riduzione dei flussi migratori verso le coste siciliane. Tale appoggio venne successivamente ritirato in occasione della guerra civile del 2011 conclusasi con la destituzione e uccisione del Colonnello. Di nuovo a tutela dei propri interessi economici nel Mediterraneo si motiva il riconoscimento garantito dall’Italia all’accordo di Skhirat del 2015.   

Quale eredità coloniale?

La storia del colonialismo italiano è stata analizzata poco, e ancor meno riportata alla luce. Si è propagandata l’idea che sia stato più “umano” e meno prolungato di quello di Francia e Regno Unito, anche se non è così. Parlarne oggi solleva domande su come dovrebbero essere accolti gli stranieri che arrivano in Italia dal nord Africa in cerca di una nuova patria. Purtroppo fin ora le risposte hanno implicato invii della guardia costiera e gommoni della speranza rimpatriati sul posto, o l’abbandono di persone in mare. Certo, non si tratta di gas tossici ma poco ci manca.

Mario Daddabbo

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