1. Verità e giustizia per Claudio Regeni. 

Noi non riavvolgiamo la coscienza.

Grazie a “il Piccolo” di Trieste: un grandissimo giornale.

L’editoriale del Direttore Enrico Grazioli.

Michele Papagna

TRIESTE Sul balcone di casa propria ognuno mette o toglie ciò che vuole: chi i fiori che coltiva con più cura, chi magari le scovazze, come si dice qui, in attesa di buttarle prima o poi in un cassonetto. Sul balcone del palazzo della Regione a Trieste fino a pochi giorni fa uno striscione ricordava e testimoniava il bisogno di verità intorno all’assassinio di Giulio Regeni.

È stato tolto, definitivamente: nascosto, con la solerzia dei maggiordomi che oggi nel dizionario della politica viene nobilitata col termine di pragmatismo, come la polvere sotto i tappeti o come qualcosa di ingombrante, di cui liberarsi; ripiegato, insieme alla coscienza di qualcuno che lo ha scambiato per una bandiera di parte, usata dagli avversari come collante in mancanza di idee e consenso, quando invece era e rimarrà il simbolo trasversale di un anelito di giustizia. Capace di accomunare tantissimi. Non tutti, certo.

Nessuno lo pretende e in questi giorni ce ne siamo resi ben conto, leggendo molti commenti alla notizia: Giulio, lasciato progressivamente solo dalle istituzioni con il suo destino, è diventato per molta gente non il tassello fondamentale di un senso di convivenza civile, ma carne da macello per alimentare la canea di un dibattito volgare, irrazionale, violento.

Giulio, figlio di questa terra, cittadino del mondo che sperava di cambiare in meglio, italiano (prima gli italiani, ma si vede che c’è qualcuno meno italiano di altri…); Giulio irriso, denigrato, squalificato, trasformato addirittura in nemico, non si capisce bene di chi e di cosa; Giulio simbolo di impegno, studio, cosmopolitismo, cultura (tutte cose ingombranti, oggi) ridotto anche attraverso il disinteresse a rompiscatole ficcanaso, che se l’è andata a cercare, tipo avete presente quei volontari che rischiano sé stessi dove c’è più morte che vita?

Senza bisogno di augurargli la morte, come avviene ad esempio per i migranti o i rom, perché nel suo caso la sventura, i criminali e chi garantisce loro copertura avevano già provveduto.

Il che, non potendo in alcun modo asciugare la bava alla bocca, ha autorizzato qualcuno a scriverci l’altro ieri che sperava Giulio stesse ora “bruciando all’inferno”. Ecco, quello striscione significava e significa anche prendere le distanze da chi verso Giulio si sente oggi così e così lo strumentalizza, loro sì, per alimentare un clima imbarbaritosi e imbarbarito ad arte, di scontro perenne che non ha alcuna possibilità di far crescere una comunità scossa come la nostra. Toglierlo, l’averlo orgogliosamente tolto, rischia di essere non tanto un atteggiamento pur fuori luogo di discutibile neutralità istituzionale, ma un adagiarsi anche tacitamente su quelle convinzioni e parole bestiali; di essere un’adesione tacita a questa deriva, di alimentarla più o meno consapevolmente con argomenti presentabili, facendo da sponda rispettabile a un grumo crescente di odio. Noi crediamo invece che Trieste e questa regione vogliano segnare, anche simbolicamente, la loro distanza, la loro differenza da questo mood dilagante.

È anche per questa ragione, senza alcuna polemica, senza farci strumento di alcuno se non del sentire incredulo e smarrito di tanti, che abbiamo pensato di non riavvolgere la nostra coscienza ma di restituire allo striscione per Giulio l’intera prima pagina di questo giornale. Che già tre anni fa fece una scelta simile, quando fu il sindaco della città a toglierlo dal fronte del Palazzo. Rispetto ad allora abbiamo solo lasciato sullo sfondo piazza Unità, compresa nel suo cielo e nel suo mare, azzurri come il futuro che Giulio immaginava possibile disegnare e vivere: e lì, come in ogni luogo di civiltà e speranza, il ricordo di Giulio e l’impegno per lui debbono prendere luce e vento; lì lasciamo che sventoli.

Lo abbiamo fatto non per provocazione, e lontani da un’ostilità di pensiero che invece ritroviamo in chi da Giulio vuole ritrarsi: solo per non smettere di testimoniare, anche un’emozione (che non disturba, anzi rafforza ogni tentativo che la politica e la magistratura possono ancora fare nel perseguire la giustizia): per non rassegnarci ad essere complici di una rimozione, fisica e intellettuale; perché ci accompagnano i versi di un triestino come Umberto Saba: “Amai la verità che giace al fondo/quasi un sogno obliato/che il dolore riscopre amica”.

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