Foto: pixabay - bar normalità

La difficoltà e la necessità di adattarsi al cambiamento

È grande il desiderio di tornare alla normalità. Sentimento che viene sempre più disilluso da molteplici problematiche: legate al progresso e alla lenta distribuzione dei vaccini, alla minaccia di una maggiore diffusione del Covid-19, rafforzato dalle molteplici varianti. Lockdown e nuovi modi di lavorare e rapportarsi, hanno scandito gli ultimi mesi, lontani dal prima, da ciò che era la normalità. Anche da ciò che era la banalità: ciò che era considerato scontato, da febbraio 2020 ha cessato di esserlo, e si è iniziato a cercare un ritorno al prima, a ciò che era normale.

C’è da chiedersi cosa sia ormai da considerarsi normalità. Se ne attende ferocemente il ritorno. Ci si immagina in una lotta per riavere indietro la frivolezza di molte giornate, come se qualcuno l’avesse sottratta di proposito. Il problema è che non si può tornare indietro anche perché prima dobbiamo imparare a fare i conti con questo nuovo tempo che ci troviamo a vivere, nel bene o nel male.

Accettare le nuove giornate attualmente non più scandite da un’uscita serale, abbracci e incontri, lo stare in un ufficio (con le chiacchere da ufficio) o in classe, non significa darsi per vinti. Non vuol dire arrendersi. E non significa aver detto addio per sempre alla socialità, al “vecchio modo di vivere”. Significa imparare a conoscere una nuova realtà, trovare e ritrovare i propri tempi e la propria dimensione, così da creare una via di mezzo in quello che sarà il dopo: ripartire abbracciando i cambiamenti. Significa anche lavorare su una nuova dimensione di razionalità, che non porti a ignorare l’attuale delicata situazione facendo finta che non ci sia un problema esteso, ma lavorare su più fronti affinché dall’equilibrio psicosociale a quello economico non crolli tutto rovinosamente. È possibile vedere delle nuove opportunità in quella che viene definita la nuova normalità. The new normal.

Sono molte le testimonianze di chi è riuscito a trarre persino benefici dal trascorrere maggior tempo nella dimensione casalinga, prima ridotta quasi all’osso. Sono altrettante le opinioni di chi ridicolizza il tanto discusso lavoro agile, i progetti di South working, country working e così via: tutti tentativi di adattamento che cercano di sfruttare e riattivare un tipo di economia, al di fuori della sola grande città. Tentativi che non meritano di essere bullizzati ma che meritano un’opportunità. Si fa anche una giusta e preoccupante analisi economica: contrazione dei consumi e nuova povertà sono i capisaldi di cui si discute in questi mesi. Dai dati Istat emerge oltre un milione in più di persone in povertà nel 2020 (+335mila sul 2019).

Le preoccupazioni principali ruotano essenzialmente attorno ai due concetti chiave che compongono questa doppia crisi mondiale: la salute e quanto reggerà il Sistema Sanitario Nazionale, e le conseguenze date da scelte obbligate di prevenzione (lockdown, zone gialle, arancioni e rosse, bianche, divieto di lasciare la regione) di mettere in seria difficoltà intere economie. Bar, ristoranti, negozi di vario genere.

Eppure ci si trova divisi anche sulla gestione del rilancio dell’economia, da parte dei cittadini e delle tipologie di lavoratori. Da un lato gli estremisti dello smartworking forzato: la spinta c’è stata e si prospetta un futuro in cui questa modalità sarà molto più utilizzata che in passato. Si prospetta un futuro che troverà un suo equilibrio tra casa e ufficio, una sua chiara e forte legislazione, uno sguardo a un nuovo equilibrio casa-lavoro.

Dall’altra i gestori di bar e ristoranti, attività locali che specie nelle grandi città ruotano attorno all’ecosistema del lavoro da ufficio hanno da dire la loro. A ragione o a torto? Tutto ciò deriva dal fatto che la dimensione cittadina per lungo tempo si è elevata unicamente attorno alla dimensione lavoro-da-ufficio e che ora ne viene invece schiacciata.

Appare chiaro che l’ecosistema è destinato a mutare per abbracciare il cambiamento, troppo spesso ostacolato sia dal lato umano, che digitale (la digital divide fin troppo diffusa in Italia), che economico. Eppure risulta evidente quanto sia stato possibile fare piccoli passi avanti anche solo dal lato digitale, in un clima di necessità e urgenza per non soccombere all’immobilità. Che significa? Che probabilmente sarebbe stato possibile anche prima della crisi totale. La paura irrazionale di uscire dalla propria comfort zone, ancora troppo analogica, ancora troppo “working hard instead of working smart”. Ancora troppo legata al vecchio, che nel mondo digitale e in costante movimento non funziona più, da tanto.

Di nuovo, essere disposti ad adattarsi a una nuova dimensione, non significa arrendersi ma reinventarsi, reimmaginare e ricostruire dalle fondamenta un nuovo ordinario, più forte e solido. È anche l’occasione per fare la differenza, per riuscire ad abbracciare la spinta al cambiamento.

Il cambiamento, è la nuova normalità.

Alice Cubeddu

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