La recente decisione della Corte Suprema statunitense, che cancella l’aborto come diritto costituzionale e ne delega, di fatto, la regolamentazione ai singoli stati, ha fatto rumore anche in Italia. Da giorni, infatti, attivisti e attiviste italiane si stanno facendo portavoci di una battaglia extra nazionale che li vede impegnati a rivendicare il diritto di tutti ad essere pro-choice, ad avere diritto di scelta anche in merito all’interruzione volontaria di gravidanza. Perchè questa notizia ci ha toccati a livello mondiale? È presto detto, la sentenza della Corte Suprema, infatti, ripristina la capacità di ogni singolo Stato di approvare delle leggi interne che proibiscano l’aborto anche in maniera totale: questo significa che anche in casi di violenza, malformazione del feto, estrema povertà o altra indisponibilità e incapacità, potrebbe essere impossibile scegliere di intraprendere un’interruzione di gravidanza all’interno del territorio in cui si vive. Missouri e Texas sono stati i primi a rendere l’aborto illegale, costringendo di fatto ogni donna residente in questi stati a recarsi necessariamente altrove, ad esempio in California, Oregon, Washington, New York, per poter abortire in tutta sicurezza e legalità. È evidente che i costi che derivano da tale viaggio e, più in generale, l’indisponibilità di avere una tutela sanitaria immediata mette in condizione di estremo rischio tutte quelle donne che per motivi economici, di salute o altro, si ritrovano a non poter spostarsi e, dunque, a non avere una scelta. La gravità di tale sentenza è lampante: il diritto all’aborto, alla libera scelta, da questo 24 giugno 2022 non è in alcun modo garantito negli Stati Uniti. 

Questa deriva pro-life statunitense che ci scandalizza, ci atterisce e ci riporta indietro di 50 anni sul fronte dei diritti umani, e nello specifico rispetto ai diritti femminili, porta a galla una domanda che non possiamo non porci… siamo sicuri che in Italia il diritto all’aborto sia effettivamente garantito?

L’interruzione volontaria di gravidanza (IGV), per la Costituzione italiana, è regolamentata dalla legge 194 del 19778, rendendo possibile la stessa su tutto il territorio nazionale. Almeno, in via teorica è cosí, ma tendiamo a dimenticare che la stessa legge, all’art. 9, tutela in via parallela l’obiezione di coscienza del personale sanitario. Per quanto la possibilità di scelta di un medico di essere obiettore possa essere discutibile (considerando anche che possono sussistere motivazioni religiosi e, che in ogni caso è una decisione del tutto compatibile con il giuramento di Ippocrate), l’obiezione di coscienza comporta a volte delle difficoltà nel garantire una sufficiente tutela del diritto all’aborto

Prendendo in consierazione i dati della Relazione annuale sull’attuazione della legge 194/78, stilata dal Ministero della Salute con i dati definitivi del 2019 e i dati preliminari del 2020, emerge quanto segue:

  • in percentuale, gli stabilimenti che non effettuano l’IGV sono il 36,9%
  • in percentuale, gli obiettori per categoria professionale sono rispettivamente il 67 % dei ginecologi, il 43,5% degli anestesisti, il 37,6% del personale non medico. 

Questo significa che, in Italia, poco più del 50% degli stabilimenti ospedalieri con reparto di ostetricia e/o ginecologia effettuano l’interruzione di gravidanza, significa anche che sul 100% delle strutture sanitarie nazionali, invece, solo il 33% dei ginecologi non è obiettore di coscienza, il che comporta che ogni donna che voglia affidarsi ad uno specialista prima di abortire ha solo il 30 per cento di possibilità di trovarsi di fronte ad un professionista che non la giudicherà per la propria scelta, che non tenterà di farle cambiare idea e che non trasformerà il suo diritto di abortire in una semplice concessione. Perchè, di fatto, questo è ciò che succede nella realtà

Dalla stessa Relazione, inoltre, emerge anche che, in percentuale, gli stabilimenti che effettuano IGV (che in totale sono il 63,1% degli stambilimenti nazionali presi in esame) in italia meridionale e insulare sono rispettivamente il 41,9% e il 56,1% sul totale delle strutture presenti in queste regioni. Le situazioni più tragiche le troviamo in Molise, su 3 solo 1 stabilimento effettua IGV, e in Campania, dove solo 19 strutture su 72 garantiscono il diritto all’aborto, ma anche a Bolzano (nonostante la medie delle strutture dell’Italia Settentrionale in cui si pratica l’IGV sia molto elevata e vicina all’80%) dove le strutture ospedaliere sono in percentuale il 28,6%. In molte altre regioni, in ogni caso, la soglia degli stabilimenti in cui è possibile effettuare un’interruzione di gravidanza, supera di poco il 50%, cosí come in media su tutto il territorio italiano, come già sottolineato. 

Cosa ci dicono questi dati? Sicuramente l’Italia non è il Texas e, sicuramente, il diritto di scelta va garantito anche al personale medico che può trovarsi a dover effetuare un aborto, ma va anche garantita una soglia minima regionale e nazionale di tutela che consenta ad ogni donna di fare una scelta libera, informata, sicura e priva di giudizio. Bisogna garantire le stesse possibilità, a prescindere dalla localizzazione geografica, a ogni donna, diminuendo le forti differenze che troviamo principalmente tra le aree settetrionali e meridionali del nostro Paese. È necessario per evitare il verificarsi di conseguenze assimilabili a quelle statunitensi, per fare in modo di scongiurare la possibilità, per quanto remota, di svegliarci di colpo in un mondo di soli obiettori che possano decidere di abrogare il diritto all’aborto, perchè, come ci insegnagno gli USA, i diritti non vanno mai dati per scontati, ma anzi, comportano una lotta eterna al mantenimento di quanto conquistato.


Chiara Saibene Falsirollo

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