Scorriamo pro e contro del lavoro nel no profit, completo di dati ISTAT sull’occupazione nel terzo settore. Certamente si trova espansione e possibilità, ma bisogna tenere in considerazione alcune caratteristiche. Infine dobbiamo ricordare le nostre qualità e che non esistono al mondo soluzioni sicure o definitive.

Partiamo dai fondamentali, che non è male rivedere per curiosità, per poi analizzare il tema nel particolare.

  • Se in Italia sono presenti in tutto 363.499 enti no profit, la maggioranza sono al Nord col 50%, il 22,2% al Centro, il 18,2% al Sud e il 9,4% nelle Isole.
  • I volontari sono per il 57,5% uomini e il 42,5% donne. Le donne sono più presenti  in questi settori: Religione (con 55 volontarie su 100 volontari), Cooperazione e solidarietà internazionale (53,4%), Filantropia e promozione del volontariato (52,7%), Istruzione e ricerca (51%) e Sanità (49,2%). 

E’ noto che il terzo settore è una grande risorsa, ben presente in Italia. Molti hanno fatto del terzo settore il proprio lavoro, da cui guadagnare di che vivere. Il settore è in aumento costante ogni anno. Tuttavia non in modo sufficiente a gridare al boom oppure vederlo un’ancora di salvezza per le proprie speranze di occupazione: si tratta di un aumento piccolo, circa l’1%. In compenso, ci permette di dire che sia un settore vivo ed in salute.
Curiosamente, nel 2020, con la pandemia, enti e dipendenti sono leggermente aumentati al Sud (+1,7% e 5,1%) mentre nel Nord-ovest italiano è accaduto l‘opposto (-0,5% e -1%).

Bisogna considerare che la presenza di dipendenti non è la regolarità in un ente no profit. Generalmente sono i più grandi che assumono. Nel 2020 l’85,7% delle istituzioni non profit opera senza dipendenti. Del resto, il 6% ne impiega fino a 3, il 4,7% tra 3 e 9, il 3,7% almeno 10. Sono quest’ultime che impiegano l’86,6% dei dipendenti ed in cui c’è stata maggiore crescita di assunzioni.

Si trovano più dipendenti negli enti no profit di tipo cooperativa sociale (53%). E’ abbastanza naturale, dato che fare assunzioni è proprio negli scopi di questa tipologia. Quando non si considerano le cooperative sociali, troviamo il 19,6% nelle associazioni ed il 12,2% nelle fondazioni.

Chi riesce a trovare un lavoro vero e proprio nel no profit rientra in pochi settori: assistenza sociale e protezione civile (48,4%), istruzione e ricerca (15,0%), sanità (11,9%) e sviluppo economico e coesione sociale (11,4%). Nell’insieme, sono questi fattori a dominare, dato che coprono l’86,7% del totale, quasi nove addetti su dieci. Detto in modo grossolano, si tratta sempre di ambiti sanitari o insegnanti. 

Questa predominanza in realtà è piuttosto comune ed in un certo senso prevedibile, perché viene riflessa anche dagli altri Paesi europei, dove i numeri dell’occupazione derivanti dal terzo settore sono anche maggiori rispetto all’Italia.

Da notare che i settori che danno lavoro non coincidono con quelli più diffusi in generale nel no profit in Italia. Rappresentano delle nicchie produttive, ma non sono rappresentative di che cosa si occupa il terzo settore in Italia. Infatti si fa più no profit nello sport (32,9%), attività culturali e artistiche (15,9%), attività ricreative e di socializzazione (14,3%), solo dopo arriva l’assistenza sociale e protezione civile (9,9%). Questi quattro ambiti coprono il 73% del totale degli enti attivi, tre enti su quattro. 

A trovare lavoro nel no profit sono soprattutto al Nord col 57,2%, mentre al Sud il 20,0%. Perciò i dati statistici reali non confermano lo stereotipo del Sud che crea lavoro per tirare a campare, anche mangiandosi i contributi alle no profit, mentre resta vero che il Nord risulta più attivo.

Il no profit segue dei meccanismi diversi da un’azienda privata. Ciò potrebbe apparire attraente, ma è controbilanciato anche da altri fattori.
Di fronte al rischio del licenziamento, il no profit potrebbe essere più propenso a cercare di salvare un posto di lavoro, perché segue dei criteri diversi rispetto ad un’azienda, in particolare dove gli utili hanno una funzione diversa. Mentre per un’azienda l’utile è ciò da cui deriva la sua stessa esistenza, un ente no profit potrebbe preferire ridurre gli utili e tenere un posto di lavoro. Un ente no profit non viene definito dai suoi ricavi, mentre un’azienda che va in perdita viene meno alla forma con cui è nata. Anzi, a volte salvaguardare un posto di lavoro alimenta direttamente lo scopo dell’ente no profit, che vede il lavoro come forma di integrazione sociale e partecipazione alla comunità.
Per una azienda potrebbe essere più difficile essere in grado di mantenere l’impegno, perché deve contare solo sui propri mezzi per la propria sussistenza, mentre nel terzo settore esistono anche bandi di finanziamento pubblico. Abbiamo assistito a delle forme di aiuto durante il covid ed i governi progettano incentivi per le assunzioni, ma non sono misure sostanziali, che possano sostituirsi alle logiche che dirigono un’azienda, cioè il calcolo di spese e ricavi.

Dato che intervengono dinamiche di tipo diverso, partecipare in una no profit potrebbe essere più impegnativo, perchè se i ruoli sono influenzati meno dal rapporto dipendente – datore di lavoro, che prevede regole e distanze specifiche, si potrebbe cadere in rapporti più personali, informali o meno definiti, quindi più complessi da interpretare e gestire. 

Ripetiamo che non bisogna tradurre ente no profit con porto sicuro. Anche qui si trovano forme di lavoro atipiche: ben lontani da determinato ed indeterminato, con cui sono più affini le aziende, ma collaborazioni o meri rimborsi spese. Anzi le motivazioni che differenziano le aziende potrebbero essere giocate in senso contrario: che non si può reggere la competizione con un’azienda vera e propria, che il sostegno è discontinuo, perciò si viene spinti ad accettare forme di precarizzazione, dequalificazione o sfruttamento, mentre si dipinge il motivo inattaccabile della maggiore importanza dell’ideale o della missione dell’ente, in uno scenario che potrebbe essere anche peggiore dell’impiego in un’azienda privata.

In conclusione, il lavoro nel terzo settore ha certamente delle differenze col lavoro in azienda e ha le sue specificità… O forse è diverso chi sceglie di andare a lavorare per il terzo settore.
Infatti bisogna possedere delle qualità e delle circostanze che permettono di vivere in questo ambiente con regole diverse ed essere in grado di apprezzarlo.
Molti studi evidenziano che chi lavora nel no profit, per quanto ognuno possa avere le sue giornate no, prova mediamente più motivazione e gratificazione. Ma non spiega come ci sia arrivato.
Non c’è una risposta univoca se il privato sia un ambiente di lavoro migliore del no profit e soprattutto ogni singolo ambiente è diverso da un altro della stessa categoria. 
Dobbiamo vagliare la nostra personalità e le nostre preferenze e cercare caso per caso, nella ricerca del posto dove sentirsi finalmente adatti.

Articolo scritto da Gemma Domenella

Bonus: per una analisi della situazione del volontariato nel terzo settore, puoi leggere quest’altro mio articolo.

Fonti
Rapporto Istat 2023 – 1 relativo a 2021
Rapporto Istat 2022 relativo a 2020

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